Quarta Domenica di Quaresima

Luca 15,1-3.12-32

 

“Si avvicinavano a lui i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro»”(Lc 15,1-2). Così inizia il Vangelo di questa domenica. Ma ancora in Luca leggiamo: “E’ venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico di pubblicani e di peccatori” (Lc 7,34). Nel Vangelo di Matteo: “Mentre sedeva a tavola nella casa (di Matteo), sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli” (Mt 9,10). I pubblicani li conosciamo, sono gli esattori delle tasse per conto dei romani, i peccatori sono gli ebrei poco osservanti delle regole e dei precetti del Talmud. I farisei sono parte di un partito religioso giudaico propugnatore di una profonda conoscenza della Torah, la legge biblica, e di una rigida interpretazione soprattutto riguardo al sabato, alla purità rituale e alle decime. Nonostante il profondo impegno religioso, l’esagerato zelo per la legge e la purità li porta a un altero isolamento e al disprezzo del popolo.  Gli scribi, uomini colti dediti allo studio e sono membri della classe dirigente. Spesso nel Vangelo li troviamo assieme ai farisei.

Gesù ci ha rivelato che Dio è “amico di pubblicani e peccatori”: ma fino a quando lo sarà? Non verrà il giorno in cui cambierà atteggiamento nei loro confronti? Pensiamo che abbiano, abbiamo, tempo fino alla fine della vita per convertirsi, poi basta. Al momento della resa dei conti Dio smette di essere buono e diventa un giudice giusto. Questo cambiamento di sentimenti non può che lasciarci stupiti e sconcertati. C’è una risposta convincente?

Ai farisei e agli scribi che mormoravano “Egli disse loro questa parabola” (Lc 15,3). Dopo il racconto della parabola della pecorella smarrita e della dramma perdura (Lc 15, 4-10) Gesù racconta la più bella parabola, il Vangelo nel Vangelo, la chiamano i Padri della Chiesa, la parabola del ‘Padre misericordioso’ o ancora meglio ‘Parabola dell’amore del Padre’, in genere conosciuta come ‘il figliol prodigo’. Qui troviamo la risposta al nostro pressante interrogativo. Gesù usa il genere letterario della parabola, racconto allegorico, perché presentando tre personaggi l’ascoltatore si senta attratto totalmente da uno solo, quello che incarna il messaggio. Gesù non si rivolge ai pubblicani e ai peccatori, ma ai farisei e agli scribi. Gli impeccabili che stanno correndo un grosso rischio spirituale perché hanno falsato completamente il rapporto con Dio, non hanno capito che egli ama tutti gratuitamente e davanti a lui non si possono accampare meriti.

“Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: ‘Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta’. Ed egli divise tra loro le sue sostanze” (Lc 15,11-12). Rispetto della libertà e totale generosità. Questo figlio dopo essere finito a “pascolare i porci” decide di tornare dal padre, non perché pentito, ma perché “io qui muoio di fame”. A questo punto torna in scena il padre: non dice una parola. La sua reazione di fronte al figlio che ritorna è descritta in cinque verbi che da soli bastano a far considerare questo versetto (20) come uno dei più belli di tutta la Bibbia.

“Quando era ancora lontano, suo padre lo vide”. Da sempre lo aspettava, sempre guardava quella strada senza mai stancarsi.

”ebbe compassione”. Il testo originale parla di una commozione così grande da essere percepita anche fisicamente, nelle viscere. Nei Vangeli questa espressione compare 12 volte ed è sempre riferita a Dio o a Gesù.

”gli corse incontro”. Si mise a correre anche se vecchio; dimenticando il suo rango. Agisce ascoltando solo il cuore.

”gli si gettò al collo”. Gli cadde quasi addosso con un abbraccio totale.

”e lo baciò”. E’ il segno dell’accoglienza, l’espressione della gioia e del perdono.

“E facciamo festa” (Lc15,23). Noi vorremmo che la parabola finisse qui, ma Gesù continua: “Il figlio maggiore si trovava nei campi” (Lc 15,25).«E’ l’uomo dei rimpianti, onesto e infelice, che ha perso la gioia di vivere: non ama quello che fa, e il cuore è assente. Tutti noi siamo un po’ così, onesti e infelici, cristiani del capretto, come ci chiama P. D. Turoldo, viviamo più da salariati che da figli. Ma l’amore del padre non è commisurato ai meriti dei figli, sarebbe amore mercenario. Non si misura su di un capretto. Non c’è nessun capretto, c’è molto di più, tutto: “tutto ciò che è mio è tuo” (Lc 15,319. (P. Ronchi)                                                    Mons. Pietro Romanello

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