L’interesse per la pubblicazione della nuova edizione del Messale non può limitarsi all’investigazione filologica, ma richiede uno sforzo più ampio per far sì che il testo del libro diventi gesto per un’assemblea che vuole essere all’altezza del suo compito. È la sfida più grande: recuperare quella capacità dell’agire liturgico che già Guardini, all’inizio della riforma conciliare, vedeva come seriamente compromessa da una mentalità razionalistica. Soltanto se la celebrazione rimane tale, nel pieno rispetto delle sue leggi e delle sue risorse, diventa «luogo privilegiato di trasmissione dell’autentica tradizione della Chiesa e di accesso ai misteri della fede» (Presentazione, n. 10).
È chiaro che non è sufficiente il libro liturgico per celebrare in autenticità, ma il libro – che come stabilito dai Vescovi sarà utilizzato ufficialmente nelle chiese del Triveneto dalla prima domenica di Avvento (29 novembre 2020) – fornisce la griglia indispensabile affinché l’azione sia fedele al progetto ecclesiale e attuabile da una reale assemblea. Se una motivazione didascalica (per capire e far capire) ha caratterizzato una prima fase della ricezione del Messale, un intento “stimolatore” teso ad animare le assemblee ha contrassegnato una seconda fase, ora un nuovo obiettivo deve guidare la pastorale liturgica: permettere che le azioni, celebrate in verità, introducano al mistero che salva, senza aggiunte inopportune che le falsificano o banali spiegazioni che le destabilizzano.
Celebrare con arte
Si comprende tutta l’urgenza dell’ars celebrandi che deve muoversi sui due binari dell’obbedienza al progetto rituale custodito dal libro e della valorizzazione di tutti i linguaggi di cui il rito ha bisogno in vista del coinvolgimento pieno dell’uomo. È quanto affermava papa Benedetto XVI nell’esortazione apostolica Sacramentum Caritatis (nn. 38 e 40). Una pluralità di codici perché tutti possano celebrare e così accedere all’unico mistero. Il Messale, a questo proposito, e il suo Ordinamento Generale, sono strumenti che ordinano e guidano la celebrazione eucaristica in modo che tutti possano partecipare, ciascuno secondo il proprio compito, e tutti secondo la dignità ricevuta nel Battesimo (SC 14). Nelle Premesse, ampiamente riviste, e nell’apparato rubricale affiora la traccia che rende possibile la celebrazione come parola da dire o da cantare, gesto da compiere, silenzio che fa tacere ogni suono ormai inutile. È il “rosso” della rubrica che attende di essere risvegliato nelle molteplici possibilità dei linguaggi i quali, come sostengono ancora i Vescovi, «non costituiscono dunque un’aggiunta ornamentale estrinseca, in vista di una maggiore solennità, ma appartengono alla forma sacramentale propria del mistero eucaristico» (n. 9).
Alcuni esempi rintracciabili nelle Premesse e nella stessa struttura celebrativa sono utili per comprendere la responsabilità affidata a chi celebra affinché la “forma sacramentale” della fede nutra ed edifichi la Chiesa.
La cura dei gesti
Innanzitutto, la cura dei gesti e degli atteggiamenti del corpo del sacerdote, dei ministri e dei fedeli. Il n. 42 dell’Ordinamento Generale, di nuovo conio, ricorda che essi devono tendere a far sì che tutta la celebrazione risplenda per la bellezza e per quella nobile semplicità che già il Concilio aveva raccomandato, si colga il vero significato delle sue parti e si favorisca la partecipazione di tutti. Si tratta di gesti che non possono dipendere dall’arbitrio di qualcuno e devono favorire l’afflato spirituale di chi li compie anziché disorientare e confondere. Una verifica della nostra gestualità liturgica sarebbe quanto mai auspicabile per ridare dignità e verità alle azioni che compiamo e toglierle da quel funzionalismo che le ha mortificate. Si pensi, ad esempio, all’incedere simbolico nella Messa: qual è lo stato di salute delle nostre processioni d’ingresso (spesso ridotte a semplice accesso all’altare), offertoriale (sovente a rischio di fraintendimento perché si porta qualsiasi cosa) e di comunione (più simile a una coda alla posta dove il singolo va a procurarsi un bene)?
Il silenzio
Un altro aspetto che la nuova normativa recupera è il silenzio. Il n. 45 dell’Ordinamento, anch’esso di nuova composizione, sembra ridare consistenza ai momenti di silenzio considerati «parte della celebrazione» e la cui natura dipende dalla struttura stessa di ogni rito. Il silenzio liturgico non è semplice tacere, ma intreccio fecondo con la parola, il canto, l’immagine e lo spazio fino a diventare raccoglimento (durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera), meditazione (dopo l’omelia) e preghiera interiore di lode e di supplica (dopo la comunione). Il n. 56, a proposito della liturgia della Parola, richiama l’opportunità di momenti di silenzio brevi e adatti alla reale assemblea. Un silenzio, dunque, non da sopportare, ma da celebrare come “luogo” in cui lo Spirito parla.
Il canto
Infine, il tema del canto del presidente in dialogo con l’assemblea. La nuova edizione italiana presenta nel corpo del Messale le melodie ispirate alla tradizione gregoriana per alcuni testi del Rito della Messa, del Triduo pasquale e di altri momenti dell’anno liturgico e in Appendice anche le melodie composte appositamente per l’edizione precedente. Con questa ampia offerta musicale si è voluto promuovere il canto del presidente, archiviato troppo frettolosamente, quel “recitare cantando” che riesce a sublimare la parola, dove la musica stessa si pone a servizio della parola. Cantare ciò che si può leggere è gratuità, esperienza ed espressione dell’indicibile, gesto sonoro nel quale Dio si mostra e con il quale il suo popolo lo incontra.
Ripartire dalla celebrazione
Nei lunghi mesi del lock down i fedeli sono stati privati dei segni della fede. La consegna del Messale alle Chiese d’Italia è ripartenza dalla liturgia e da quel lato più delicato e decisivo che è la competenza celebrativa. Occorrono, per questo, uomini e donne che a vario titolo considerino la vita liturgica come essenziale e sperimentino e facciano sperimentare il dono inaudito di Dio nelle azioni rituali. Per questo è necessario che il Messale sia patrimonio dell’intera comunità e che il progetto rituale in esso riportato diventi azione viva grazie ad una pluralità di ministeri e ad una ricchezza di linguaggi mai riducibile ad uno solo.
Se il passaggio dal latino alla lingua viva ha significato una maggiore attenzione ai contenuti da comprendere, ora occorre passare dai contenuti ai linguaggi che li mediano. Occorre che presidenti, ministri dell’altare, della Parola e del canto, e tutti i fedeli, recuperino il lato più corporeo della liturgia fino a percepire il non verbale della parola che diventa canto e silenzio.
È attraverso questa via, garbata e persuasiva, che si realizza l’augurio di sant’Agostino: «Se voi siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il mistero di voi: ricevete il mistero di voi. A ciò che siete rispondete: Amen e rispondendo lo sottoscrivete». Nell’Eucaristia che celebriamo in fedeltà a Dio e all’uomo è racchiuso e svelato il mistero che ci riguarda.
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