Martedì scorso 8 febbraio abbiamo celebrato la Giornata di preghiera e di riflessione contro la tratta degli schiavi. Una giornata passata sottotono, forse perché ormai ci sono troppe le giornate da ricordare o forse perché non si desidera o si ritiene inutile portare all’attenzione.
Il giornale “Avvenire” è attento più di altri ed ha scritto che, stando alle stime della Nazioni Unite, ci sono oggi 40 milioni di esseri umani in catene ed il business da 32 miliardi di dollari l’anno rappresenta la terza attività illegale più redditizia, dopo il traffico di droga e di armi. Il Papa domenica scorsa al termine dell’Angelus ha denunciato una “profonda ferita, inferta dalla ricerca vergognosa di interessi economici senza alcun rispetto per la persona umana”. Il 72 per cento delle vittime sono donne e bambine. Tante ragazze che non sono libere, sono schiave dei trafficanti. Oggi succede anche nelle nostre città. In verità ci sono 3.000 religiose che accompagnano milioni di donne verso la libertà. Ma ci sono anche situazioni di lavoratori sfruttati che vivono in ambienti malsani e privi dei confort più elementari. L’economia che uccide potrà essere trasformata in economia samaritana, economia della cura?
La ex baby- schiava sudanese
Proprio l’8 febbraio abbiamo celebrato la memoria di Santa Giuseppina Bakhita che in questa piccola scultura di Timothy Schmalz è ritratta nello sforzo di aprire il portellone attraverso cui escono donne e uomini per correre verso la libertà.
Nacque intorno al 1869 in un piccolo villaggio del Sudan occidentale (regione del Darfur). All’età di sette anni, fu rapita da mercanti arabi di schiavi. Per il trauma subito, dimenticò il proprio nome e quello dei propri familiari: i suoi rapitori la chiamarono Bakhita, che in arabo significa “fortunata”. Venduta più volte dai mercanti di schiavi sui mercati di El Obeid e di Khartum, conobbe le umiliazioni, le sofferenze fisiche e morali della schiavitù. In particolare, subì un tatuaggio cruento mentre era a servizio di un generale turco: le furono disegnati più di un centinaio di segni sul petto, sul ventre e sul braccio destro, incisi poi con un rasoio e successivamente coperti di sale per creare delle cicatrici permanenti.
Nella capitale sudanese venne infine comprata dal consoleitaliano residente in quella città, Callisto Legnani, con il proposito di renderle la libertà: questo diplomatico già in precedenza aveva comprato bambini schiavi per restituirli alle loro famiglie. Nel caso di Bakhita ciò non fu possibile per il vuoto di memoria della bambina riguardo ai nomi del proprio villaggio e dei propri familiari. Nella casa del console Bakhita visse serenamente per due anni lavorando con gli altri domestici senza essere più considerata una schiava.
Quando nel 1884 il diplomatico italiano dovette fuggire dalla capitale in seguito alla Guerra Mahdista, Bakhita lo implorò di non abbandonarla. Insieme ad un amico del signor Legnani, Augusto Michieli, raggiunsero prima il porto di Suakin sul Mar Rosso, dove appresero della caduta di Khartum, e dopo un mese si imbarcarono alla volta di Genova.
In Italia Augusto Michieli con la moglie presero con loro Bakhita come bambinaia della figlia Mimmina e la portarono nella loro casa a Zianigo (frazione di Mirano). Dopo tre anni i coniugi Michieli si trasferirono in Africa a Suakin dove possedevano un albergo e lasciarono temporaneamente la figlia e Bakhita in affidamento presso l’Istituto dei Catecumeni in Venezia gestito dalle Figlie della Carità (Canossiane). Bakhita venne ospitata gratuitamente come catecumena e cominciò a ricevere così un’istruzione religiosa. Nel convento delle Canossiane dove rimase, il 9 gennaio 1890 Bakhita ricevette i sacramenti dell’iniziazione cristiana e con i nomi Giuseppina Margherita Fortunata. Il 7 dicembre 1893 entrò nel noviziato dello stesso istituto e l’8 dicembre 1896 pronunciò i primi voti religiosi. Nel 1902 fu trasferita in un convento dell’ordine a Schio dove trascorse il resto della propria vita. Qui lavorò come cuoca, sagrestana, aiuto infermiera nel corso della Prima guerra mondiale quando parte del convento venne adibito ad ospedale militare. A partire dal 1922 le venne assegnato l’incarico di portinaia, servizio che la metteva in contatto con la popolazione locale che prese ad amare questa insolita suora di colore per i suoi modi gentili, la voce calma, il volto sempre sorridente: venne così ribattezzata dagli abitanti di Schio: “Madre Moréta”. Dal 1939 cominciò ad avere seri problemi di salute e non si allontanò più da Schio. Morì l’8 febbraio 1947 dopo una lunga e dolorosa malattia.
Bakhita è santa
Il 1º dicembre 1978papa Giovanni Paolo II firmò il decreto dell’eroicità delle virtù della serva di Dio Giuseppina Bakhita. Durante lo stesso pontificato, Giuseppina Bakhita fu beatificata il 17 maggio 1992 e canonizzata il 1º ottobre 2000.
Bakhita si esprimeva in veneto e alcune sue frasi ed espressioni sono diventate famose: Parlava di Dio come el Parón: «queło che vołe el Parón», «quanto bon che xé el Parón», «come se fa a no vołerghe ben al Parón. Di sé stessa: «Mi son on povero gnoco, come i gha fato a tegnerme in convento?» Quando la gente la compiangeva per la sua storia: «Poareta mi? Mi no son poareta perché son del Parón e neła so casa: quei che non xé del Parón i xé poareti». Soffrì parecchio nel subire la curiosità della gente e l’acquisita notorietà: «Tuti i vołe védarme: son propio na bestia rara!»
Santa Giuseppina Bakhita viene ricordata da papa Benedetto XVI° nell’EnciclicaSpe salvi nel terzo punto. Il Pontefice la ricorda come esempio di speranza cristiana. «Mediante la conoscenza della speranza lei era “redenta”, non si sentiva più schiava ma libera figlia di Dio.»
Un cordiale saluto a tutti e l’augurio di una buona domenica. Il parroco don Luciano
https://www.cattedraleudine.it/wp-content/uploads/2024/04/la-domenica.jpg284500Cattedrale di Udinehttps://www2.cattedraleudine.it/wp-content/uploads/2024/05/cropped-logo_Cattedrale-Udine_150x150-300x300.pngCattedrale di Udine2022-02-12 10:15:112024-04-30 16:15:506^ Domenica del T.O.