«Fratelli e sorelle, buonasera!». Questo singolare incipit, la sorpresa del nome, Francesco, e il gesto inedito di chiedere la benedizione al popolo prima di impartirla egli stesso, fecero intuire che il nuovo papa avrebbe riservato sorprese. Ma soprattutto, il pontificato di Jorge Mario Bergoglio mostrò già da queste prime battute un tratto che lo contraddistingue e che è stato efficacemente descritto come «enciclica dei gesti». Pur nel tritacarne mediatico che rende impermeabili e cinici, anche dopo dieci anni lo stile di Francesco e la sua gestualità incidono, le sue parole commuovono e provocano, le sue scelte, dai viaggi apostolici al lessico, talvolta destabilizzano. Entusiasmo (più ad extra) e perplessità (più ad intra) sembrano essere le cifre di questo pontificato fra i più diretti ed estroversi della storia recente, ma che suscita domande non di rado cariche di preoccupazione, più che di curiosità. Un attento osservatore di cose vaticane, Massimo Franco, ha intitolato un suo libro L’enigma Bergoglio. Un altro titolo, L’opzione Francesco, del teologo Armando Matteo, suggerisce invece di chiedersi quale chiesa sogni papa Francesco, quale cristianesimo proponga, quali priorità indichi. Il discorso rivolto da Firenze alla chiesa italiana nel novembre 2015 inquadra bene tali quesiti.
Si tratta di un intervento di ampio respiro, di grande intensità teologica ed emotiva, eppure, sorprendentemente (o forse no), è poco citato e nei fatti quasi disatteso, tanto da essere stato più volte rilanciato dallo stesso Francesco.
Per delineare i «tratti dell’umanesimo cristiano, quello dei “sentimenti di Cristo Gesù”», il papa individua tre dimensioni che «rappresentano la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere decisioni»: umiltà, disinteresse e beatitudine. Tali tratti dell’umanità di Cristo sono proposti come coordinate portanti non solo all’uomo, ma anche alla chiesa. Infatti, solo se dotata di tale fisionomia la chiesa «sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente». Vengono evidenziate anche due grandi tentazioni: quella pelagiana dell’attivismo strutturato e iper-efficiente, e quella gnostica dello spiritualismo autoreferenziale e disincarnato. Francesco invece sogna «una chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti, una chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza», capace di prossimità e di inclusione.
Sul versante pratico, non offre ricette preconfezionate: «spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme». Viene così proposto lo stile della sinodalità, anche nei processi decisionali, con la consapevolezza però che «il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà».
Quest’ultimo è forse il passaggio più delicato e perciò disatteso, nonostante le affermazioni di principio. In questi dieci anni Francesco non solo ha indicato la missione in uscita come compito per la chiesa e medicina per le sue fragilità, ma, «per condurre la Parola alla realtà», ha anche invitato ad assumere atteggiamenti e a intraprendere percorsi nuovi e inusuali, che mettono in discussione molta della consueta, consolidata e rassicurante prassi ecclesiale. Che sia per questo che suscita tante resistenze e ad alcuni risulta addirittura urticante?
d. Federico Grosso
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