32^ domenica del tempo ordinario

ECCLESIA SEMPER REFORMANDA

 

Continua la riflessione iniziata domenica scorsa sulla ricorrenza del 500° anniversario della Riforma e della successiva Controriforma nella chiesa.

Martin Lutero, uomo e monaco

Figlio di un minatore, Martin Lutero nacque in Sassonia – nel villaggio di Eisleben – il 10 novembre 1483. Infanzia e giovinezza furono dure e sottomesse a una severa disciplina che ne segnò l’animo religioso. Avviato dal padre verso gli studi giuridici, all’improvviso entrò nel convento degli eremiti Agostiniani di stretta osservanza, a Erfurt: era il 1505. La regola dell’Ordine prescriveva una sistematica lettura della Bibbia e Martino vi si immedesimò tanto da divenire un vero esperto della Sacra Scrittura: “quando entrai in convento cominciai a leggere la Bibbia, poi a rileggerla ancora una volta e poi a leggerla e rileggerla senza posa”.

Il suo rapporto personale con la parola di Dio divenne molto intenso e lo accompagnò per tutta la vita, determinando in lui una trasformazione spirituale così radicale da condizionare poi tutto il percorso della Riforma. In pratica, egli operò una selezione soggettiva scegliendo ciò che gli appariva essenziale e tralasciando parti che non riteneva importanti (l’Epistola di Giacomo, ad esempio, divenne “una epistola di paglia”). In questo modo invece di lasciarsi plasmare dal messaggio divino, si impadronì della Parola, rendendola un’arma contro i suoi oppositori. Questo atteggiamento era legato alla sua esperienza personale: Dio gli appariva una opprimente maestà. Una visione tetra, acuita dalla dottrina teologica del “nominalismo”, allora dominante nelle università di Erfurt e di Wittenberg: risaliva al francescano inglese Guglielmo Ockham, e poneva l’accento sul concetto di sovranità e libertà assoluta di Dio. Da parte sua Lutero affermò che seguendo la teologia aveva smarrito Cristo e si scagliò con veemenza contro tutto ciò che egli definiva “Scolastica”. La domanda pressante che egli si poneva ossessivamente, nella sua ansia di salvezza, era: “come posso io trovare un Dio misericordioso?”.

Lutero visse molto seriamente la sua vita monastica: molto devoto, si consumava in veglie e preghiere ma non trovò mai serenità. Tormentato dal “peccato” – inteso come atto di egoismo, superba affermazione di sé davanti a Dio – nacquero in lui profondi contrasti, paura di non salvarsi e disperazione.

La giustificazione per fede

Nella sua ansia di salvezza si rifugiò nelle Scritture e fu colpito da un passo dell’Epistola ai Romani (1,17): “In esso [il Vangelo] infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà”. Fu per lui un’illuminazione comprendere il vero significato della giustizia divina: si sentì rinascere e la parola di Dio, da quel momento, acquistò per lui nuovo significato. La “giustizia divina” non va intesa come l’azione punitiva di un Dio terribile e vendicativo ma, se abbiamo fede, è la giustificazione che Dio nella sua misericordia ci dona con la Grazia che Gesù Cristo ha acquistato per noi con il suo sacrificio. La scoperta era rivoluzionaria, ma solo per lui: Lutero aveva riscoperto qualcosa di genuinamente cattolico che non avrebbe dovuto provocare una lacerazione nella Chiesa; essa avvenne purtroppo per altre circostanze che lo spinsero verso una radicalizzazione.

La disputa sulle indulgenze

Fu un fatto particolare a suscitare l’esplosione della Riforma: la predicazione dell’indulgenza giubilare per la ricostruzione della basilica di San Pietro in Roma che in Germania si legò a uno scandaloso traffico di denaro. L’indulgenza era una pratica molto antica connessa alla remissione delle conseguenze del peccato: nei primi secoli alcune penitenze assegnate diventavano anche molto gravose ma, al tempo di Lutero l’indulgenza si poteva ottenere attraverso il pagamento di una somma di denaro. Nel 1514 era sorta una complessa vertenza gerarchica ed economica fra l’arcivescovo Alberto di Hoenzollern e papa Leone X che si concluse con un accordo di compromesso vantaggioso per entrambi: Alberto avrebbe promosso per otto anni la predicazione delle indulgenze e del ricavato avrebbe trattenuto la metà.

Il 31 marzo 1515, con la bolla Sacrosancti Salvatoris et Redemptoris nostri, papa Leone X concedeva l’indulgenza plenaria a quanti, confessati e pentiti, avessero versato un’elemosina adeguata alle loro possibilità. Nella veste di commissario papale, Alberto emanò una disposizione (Instructio summaria) per i predicatori e i confessori. La dottrina delle indulgenze era corretta ma, in questo caso, infarcita di formule devote che trasformavano le indulgenze in una attività mistificatoria e ingannatrice.

Lutero venne a contatto con la predicazione che era stata affidata all’esperto frate domenicano Johannes Tetzel di Lipsia: infatti, anche se il principe di Sassonia Federico il saggio aveva proibito di predicare nei suoi territori, i fedeli si recavano prima in territorio brandeburghese ad acquistare le lettere di indulgenza e poi andavano a confessarsi da Lutero. Questi, da parte sua, comprese subito quale ascendente fuorviante avesse tra il popolo tale predicazione, soprattutto quando apprese che era avallata dalla Instructio summaria emanata dall’arcivescovo. A quest’ultimo, il 31 ottobre 1517, inviò una lettera pregandolo di ritirare tali istruzioni e disporre altrimenti; inoltre chiedeva che le tesi da lui proposte fossero discusse da teologi per chiarire la questione delle indulgenze. La nota circostanza dell’affissione delle tesi di Lutero sul portale della chiesa del castello di Wittenberg non è certa e di tale fatto egli non parlò mai: dirà di aver reso pubbliche le 95 tesi non avendo ottenuta alcuna risposta dalle autorità ecclesiastiche. Nessuna intenzione quindi da parte sua di promuovere un conflitto con la Chiesa. Diverrà “riformatore” in seguito e non solo per sua volontà: anzi, furono i vescovi interessati che sottovalutarono la questione. Le tesi sulle indulgenze non erano affatto contro la dottrina del tempo sostenuta dalla Chiesa: furono piuttosto l’esposizione paradossale (caratteristica dell’autore che tuttavia non ne esprimeva esattamente le idee) e il tono polemico e popolare (piuttosto che il contenuto) a provocare Roma ad accusarlo di eresia e il popolo tedesco ad acclamarlo. Toccavano infatti questioni, lagnanze e risentimenti covati per lungo tempo, suscitarono speranze deluse e fecero esplodere il malcontento diffuso in tutti gli strati della popolazione tedesca. (continua)                                                                    Francesca e Giuseppe Berton

 

 

© 2008-2023 Cattedrale di Udine - All Rights Reserved - Progetto a cura di Jacopo Salemi