1^ Domenica di Quaresima
“DA CUORE A CUORE”
Un esercizio di resurrezione quotidiana
“Digiuniamo in questi giorni santi affinché il nostro corpo sia strumento dell’anima e il cuore si apra alla carità” (Sant’Agostino, Sermones)
Sant’Agostino ci offre un’immagine potente del digiuno: non come semplice rinuncia, ma come trasformazione. Digiunare è ridare al corpo la sua vocazione più alta — essere strumento dell’anima — e aprire il cuore alla carità. Ma cosa significa, concretamente, questa apertura? E perché privarsi di qualcosa può arricchire la vita? Una libertà ritrovata Sant’Agostino stesso lo diceva: “Chi è schiavo delle proprie passioni, non è libero.” Rinunciare volontariamente a qualcosa — che sia il cibo, le distrazioni, o l’impulso a parlare sempre — ci insegna a governare noi stessi, a non lasciarci dominare dagli automatismi. Come scriveva Thich Nhat Hanh: “La vera libertà è essere padroni della propria mente.” Questa libertà interiore ci restituisce anche il gusto della semplicità. La privazione temporanea ci educa ad apprezzare ciò che diamo per scontato. In un certo senso, il digiuno ci aiuta a riscoprire il valore dell’attesa. Viviamo in un mondo dell’”adesso“, dove tutto è immediato, ma le cose più preziose richiedono tempo per maturare. La pazienza del contadino che aspetta la crescita del seme ci insegna che la rinuncia di oggi può portare frutto domani. E così, digiunando, coltiviamo la virtù della speranza: la capacità di guardare oltre il sacrificio presente verso una pienezza futura.
Un corpo che si fa spazio
Ma il digiuno non riguarda solo la mente: coinvolge anche il corpo. Privarsi di un pasto, per esempio, ci ricorda che il corpo ha bisogni reali, ma anche che può resistere molto più di quanto pensiamo. È un ritorno all’essenziale, un modo per riscoprire la sobrietà come valore. Pensiamo a San Francesco d’Assisi, che abbracciava la povertà non per disprezzo del mondo, ma per amarlo di più. “Desidero poco, e quel poco che desidero, lo desidero poco”, diceva. Ridurre il superfluo non impoverisce, ma libera spazio per l’essenziale. Come quando, facendo ordine in casa, ci accorgiamo che eliminare il caos fisico ci regala anche più chiarezza mentale. Anche molte filosofie orientali insegnano che l’eccesso di stimoli ci appesantisce. Il monaco buddista Matthieu Ricard scrive: “La felicità duratura non deriva dall’accumulare, ma dal lasciare andare.”
Questa logica non è lontana dal pensiero cristiano: svuotarsi del superfluo, anche a livello fisico, crea uno spazio interiore dove può abitare qualcosa di più grande. Digiuno e relazioni: imparare a donarsi Il digiuno non è solo una questione di sottrazione, ma anche di ascolto. Quando rallentiamo e riduciamo il rumore intorno a noi, iniziamo a percepire meglio i segnali del corpo, le emozioni più sottili, i pensieri nascosti. È come spegnere le luci della città per vedere le stelle: solo quando il frastuono si placa, emergono dettagli che prima ignoravamo. In questo senso, il digiuno ci educa a una forma più profonda di presenza a noi stessi e al mondo. Questo è vero anche perché apre alla carità. Sant’Agostino scriveva: “Ciò che risparmi nel digiuno, donalo ai poveri.” Ma questa logica va anche oltre l’aspetto materiale: digiunare può significare anche rinunciare a una parola dura, a un giudizio affrettato, a un po’ del nostro tempo per ascoltare davvero chi ci sta accanto. La psicologia moderna conferma che pratiche come la gratitudine e l’altruismo migliorano anche il benessere emotivo di chi le pratica. Insomma, il digiuno ci ricorda che siamo connessi agli altri, che la nostra libertà è vera solo quando diventa amore.
Una rinuncia che fiorisce
Forse il senso più profondo del digiuno sta proprio qui: nel creare un vuoto che può essere riempito da qualcosa di più grande. È un principio che troviamo in molte tradizioni. In Giappone, il concetto di ‘ma’ indica lo spazio vuoto che dà senso alla forma: senza ‘pause’, la musica sarebbe solo rumore; senza spazi ‘bianchi’, la pittura sarebbe un ammasso di colori indistinti. Allo stesso modo, togliere qualcosa dalla nostra vita — anche solo temporaneamente — ci permette di riscoprire il valore di ciò che rimane. “Se vuoi riempire un vaso, devi prima svuotarlo”, diceva ancora Sant’Agostino. Il digiuno, allora, non è tristezza, ma attesa. È un tempo di potatura, perché la vita possa rifiorire con più intensità. Come la natura che in inverno sembra morire, ma in realtà si prepara a sbocciare. Alla fine del digiuno quaresimale c’è la Pasqua: non la negazione della vita, ma la sua pienezza. Forse, ogni piccola rinuncia che scegliamo di fare può diventare proprio questo: un piccolo esercizio di resurrezione quotidiana. Un modo per ricordarci che, liberandoci da ciò che ci appesantisce, possiamo camminare più leggeri verso ciò che davvero conta.
Francesco Palazzolo