8a Domenica del Tempo Ordinario
“DA CUORE A CUORE”
Quaresima e Pasqua: Via Crucis – Via Lucis
“Dio, essendo sommo bene, non permetterebbe in alcun modo l’esistenza del male nelle sue opere se non fosse capace di trarre il bene anche dal male.” (De Civitate Dei XII, 26)
Sant’Agostino ci offre, in questa breve frase, un pensiero capace di trasformare la nostra visione delle difficoltà: il male che incontriamo nella vita non è sempre una condanna, né un incidente di percorso, ma può diventare una scuola, una lezione divina nascosta, un’occasione di crescita. Ma come possiamo crederlo quando siamo immersi nella sofferenza? Come vedere un disegno di bene in ciò che appare come rovina e dolore? È difficile dare consigli, ma può essere d’aiuto guardare alcuni esempi.
La pedagogia di Dio nella prova
La Sacra Scrittura ci introduce in questa prospettiva con la storia di Giuseppe, il figlio di Giacobbe. Il suo cammino sembra segnato dall’ingiustizia: tradito dai fratelli, venduto come schiavo, gettato in prigione per una colpa non sua. Eppure, quando il cerchio si chiude, egli stesso riconosce che tutto ciò è servito a un bene più grande: “Voi avete pensato il male contro di me, ma Dio lo ha pensato in bene” (Gen. 50,20). Non è questa la dinamica stessa della Croce? Anche i discepoli di Emmaus, dopo la Passione, si disperano vedendo solo fallimento. Ma quando il Risorto si fa loro compagno di strada e “spiega loro le Scritture” (Lc 24,27), allora comprendono: il male subito non era una sconfitta, ma il passaggio necessario per la vittoria della Resurrezione. Anche Paolo ha sperimentato questa pedagogia divina. Egli, uomo di azione, forte e instancabile, si ritrova a dover convivere con quella misteriosa “spina nella carne” che chiede tre volte al Signore di rimuovere. La risposta di Dio lo spiazza: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor. 12,9). Qui c’è una lezione: non è la prova a essere tolta, ma l’uomo a essere trasformato nel modo di viverla. Paolo impara a vedere nella sua fragilità non un ostacolo, ma lo spazio attraverso cui Dio può operare.
Questa logica percorre la vita dei santi.
Francesco d’Assisi, dopo essere stato ferito e imprigionato, vede crollare tutti i suoi sogni di gloria mondana. Ma è proprio in quel momento, nella frattura delle sue certezze, che si apre un nuovo orizzonte: la sua vocazione nasce dalla sua sconfitta. Anche Teresa di Lisieux, segnata dalla malattia e dal senso di impotenza, impara che non è necessario compiere grandi imprese per amare Dio, ma che si può fare della fragilità stessa un’offerta: “Tutto è grazia!”, dirà in punto di morte. E come non ricordare Edith Stein, che nelle tenebre della persecuzione nazista riconosce una chiamata a condividere la croce del suo popolo?
Figure straordinarie
Se volgiamo lo sguardo alla storia, troviamo figure straordinarie che hanno saputo affrontare il dolore con dignità, trasformando la sofferenza in testimonianza di bene. Pensiamo a Viktor Frankl, psichiatra ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento, che nel suo libro “Uno psicologo nei lager” racconta come, anche nel mezzo della disumanizzazione, l’uomo possa conservare la sua serenità interiore. Scrive: “Tutto può essere tolto a un uomo, tranne una cosa: l’ultima delle libertà rimane, scegliere il proprio atteggiamento in ogni determinata situazione, scegliere la propria via.” E fu proprio questa libertà interiore che gli permise di resistere, trovando un senso persino nell’orrore. Un altro esempio straordinario è quello di Chiara Corbella Petrillo, una giovane donna italiana che affrontò la malattia terminale con una serenità disarmante. Dopo aver perso due figli alla nascita, si trovò a lottare contro un tumore che avrebbe potuto essere curato, ma che scelse di non trattare subito per proteggere la vita del bambino che portava in grembo. Fino alla fine, mantenne uno sguardo di speranza e di amore per la vita, tanto da dire: “Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati. Ogni giorno.” La sua storia, testimoniata dagli scritti e dalle parole di chi le fu vicino, continua a ispirare molte persone.
La grande letteratura, a suo modo, ha sempre intuito questa verità.
Dostoevskij, ne “I fratelli Karamazov”, ci mostra come la sofferenza possa essere il crocevia della conversione. Il giovane Alioscia, colpito dalla morte del suo maestro, lo starec Zosima, e sconvolto dagli eventi che travolgono la sua famiglia, potrebbe lasciarsi trascinare dal dolore e dal dubbio. Ma è proprio in quel momento di crisi che matura in lui la decisione di abbracciare fino in fondo la vita evangelica, scegliendo di restare accanto agli ultimi e ai peccatori. Dostoevskij ci suggerisce che non è l’assenza della sofferenza a generare uomini forti, ma la capacità di darle un senso. Shakespeare, nel “Re Lear”, dipinge un dramma simile. Il vecchio re, cieco di orgoglio, viene tradito dalle figlie a cui aveva donato il regno, mentre l’unica che lo ama davvero viene scacciata. È solo nel momento della rovina totale, quando Lear vaga nudo nella tempesta, privato di tutto, che arriva alla vera conoscenza di sé. La sofferenza lo ha reso umile, lo ha purificato dal suo egoismo, gli ha insegnato la compassione per chi soffre. Per questo, sul finale, può dire: “Sono un uomo più forte di prima.” Se ci fidiamo di Sant’Agostino, ci convinciamo che persino nel male esiste una lezione per il nostro bene, allora la domanda non è più: “Perché questa prova?”, ma: “Cosa vuoi insegnarmi attraverso di essa?”. La sofferenza non è un enigma da risolvere, ma un mistero da abitare. E se oggi non ne comprendiamo il senso, domani, voltandoci indietro, osserveremo che Dio non spreca nulla, nemmeno le nostre ferite.
Francesco Palazzolo