5^ Domenica di Pasqua
“Viviamo bene, e i tempi saranno buoni; noi siamo i tempi”
(Sant’Agostino, Discorso 311)
È una frase tratta dal Discorso 311 di sant’Agostino, uno degli autori che più profondamente hanno formato l’intelligenza e la spiritualità del nuovo vescovo di Roma. La citazione, usata nella udienza ai giornalisti lunedì scorso, non è stata un semplice omaggio colto, ma la manifestazione iniziale di una linea di pensiero che sarà verosimilmente centrale nel suo magistero. È stato provvidenziale l’aver qui dedicato, negli ultimi mesi, degli approfondimenti sul pensiero agostiniano. Essi sono stati, senza volerlo, una preparazione a meglio accogliere il pontificato nascente. Le parole di Agostino, già di per sé cariche di forza teologica e antropologica, assumono ora anche il valore di una sintonia con ciò che il nuovo papa si appresta a trasmettere con i suoi gesti e le sue scelte. Vale la pena dunque commentare questa massima antica quale anche strumento per entrare, con maggiore consapevolezza, nella visione cristiana del tempo e della responsabilità. Vivere bene, dice Agostino, non è uno sforzo privato o un affare interiore. È un modo di abitare il tempo, di attraversarlo lasciando in esso impronte di giustizia, di misericordia, di sapienza. E in questo senso, i tempi non sono entità autonome, quasi forze cieche della storia, ma specchi di ciò che gli uomini vi proiettano. La sfiducia che spesso circonda il nostro sguardo – verso la politica, la tecnologia, etc. – nasce da questa tentazione: credere che i tempi siano un destino e non una responsabilità.
Feynman e il rischio della conoscenza senza giudizio Un’applicazione particolarmente feconda della distinzione tra “vivere bene” e il mero “funzionare bene” si trova in un ambito che sembra, a prima vista, neutro rispetto alle valutazioni morali: la scienza. Eppure, proprio qui la riflessione è decisiva. Uno degli scienziati che meglio ha chiarito la posta in gioco è Richard Feynman, fisico teorico statunitense e premio Nobel per la fisica nel 1965. In più occasioni – a partire dalle sue lezioni universitarie (“Il Senso delle Cose”) fino ai suoi interventi pubblici dopo la guerra – Feynman ha insistito su una differenza spesso trascurata ma essenziale: quella tra scienza e tecnica. Per lui, scienza è un metodo di conoscenza. È fondata sull’osservazione sperimentale, sull’ipotesi verificabile, sulla ripetibilità. Essa mira alla comprensione delle leggi che regolano la natura, in una prospettiva aperta, autocritica, spesso provvisoria. La tecnica, al contrario, è l’applicazione della conoscenza scientifica per ottenere risultati pratici: costruire, modificare, intervenire. La distinzione non è solo formale. Per Feynman, ciò che la scienza può dire è “come funziona il mondo”; la tecnica risponde invece alla domanda: “come possiamo usare ciò che abbiamo capito”. Il problema, osservava, emerge quando si confondono questi due livelli: quando si crede che comprendere come fare qualcosa coincida con sapere se sia giusto farla. Feynman lavorò al Progetto Manhattan, partecipando allo sviluppo delle armi nucleari, e nel secondo dopoguerra riconobbe che la conoscenza acquisita non implicava, di per sé, alcuna direzione etica. La fisica nucleare aveva raggiunto un punto di maturità tale da permettere la fissione controllata, ma la scelta di utilizzare tale processo per fini militari fu di natura politica, non scientifica. Questo scarto tra conoscenza e responsabilità si è ampliato nel tempo. La tecnica, diventata autonoma rispetto alla scienza e persino rispetto all’etica, tende oggi a generare un’accelerazione che talvolta precede la possibilità di valutarne criticamente le implicazioni. Biotecnologie, intelligenza artificiale, neuroenhancement, manipolazione genetica: tutti ambiti in cui la domanda “possiamo farlo?” ha bisogno di essere affiancata – e talora arginata – dalla domanda più fondamentale: “è bene farlo?”. In questo contesto, la citazione agostiniana assume una portata epistemologica (cioè delle vie del conoscere): “Viviamo bene, e i tempi saranno buoni; noi siamo i tempi.” Il sapere, in sé, non genera tempi buoni. Può essere strumento di bene o di dominio, di progresso o di disumanizzazione. Sono gli uomini che ne dispongono a renderlo fruttuoso o distruttivo. In un sistema educativo, questa consapevolez-za implica che la formazione scientifica (specialmente ai livelli accademici) non può essere dissociata dalla formazione etica. Un curriculum che trasmetta solo la logica interna delle discipline, senza collocarle in un quadro di senso più ampio, rischia di generare competenze operative prive di orientamento. Feynman non era un pensatore morale in senso stretto. Ma la sua insistenza sul dubbio metodico, sulla trasparenza intellettuale e sul dovere di non auto-ingannarsi è, in effetti, un’etica implicita. La scienza diventa un luogo di verità solo quando è esercitata con integrità. L’uomo tecnico, diceva, rischia di ingannarsi più facilmente dell’uomo ignorante, perché dispone di strumenti più potenti per auto-confermare le proprie ipotesi. Per questo, la responsabilità dell’uomo formato scientificamente è maggiore: potere senza discernimento non rende i tempi buoni, li espone a squilibri più raffinati e meno visibili.
Non esistono “tempi buoni” senza uomini giusti Sant’Agostino, nella sua Città di Dio, osservava che ciò che distingue la città degli uomini da quella di Dio non sono i beni esteriori, ma l’amore che le muove. Dove l’amore è ordinato – verso Dio, verso l’altro, verso la verità – il tempo si fa propizio. Dove invece domina l’amor sui, il culto di sé, anche le condizioni migliori producono miseria. Ecco perché la frase del Papa, riprendendo Agostino, non è solo una citazione felice. È un manifesto. È un appello alla responsabilità personale, all’educazione profonda, alla maturazione interiore. È anche una correzione gentile al fatalismo del nostro tempo, alla tendenza a delegare al potere, alla tecnica, al futuro ciò che solo ciascuno può scegliere: vivere bene. In fondo, «noi siamo i tempi» significa anche questo: nessuna stagione della storia è perduta, se qualcuno decide di viverla con giustizia. E nessuna riforma della società sarà mai stabile, se non affonda nella riforma delle coscienze, delle abitudini. È da qui che si comincia, individualmente, si comprende perché, anche nei momenti più oscuri, la speranza cristiana non è evasione, ma radicamento. Perché essa si alimenta non dei segni dei tempi, ma della possibilità – sempre aperta – di vivere bene.
Francesco Palazzolo