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Ascensione del Signore

“Cammina, uomo, e camminando ama; perché amando corri, e corri per amare. Qui è la fatica, là è il riposo, ma cammina senza pigrizia, perché non si raffreddi il tuo amore.”

(Sant’Agostino, Sermo 169, 18)

Domenica scorsa si è tenuto il pellegrinaggio al Santuario di Sant’Antonio. Il cammino votivo ricorda a tutti che, poiché la vita in sé non ammette stasi, a maggior ragione la vita cristiana è un progressivo avanzare nella fede. Sant’Agostino nel Sermo 169 invita ogni credente a non fermarsi mai nel suo cammino spirituale. Dice che l’uomo è fatto per tendere a qualcosa più grande di lui. Questa tensione è già scritta dentro di noi: siamo pellegrini, non residenti; viandanti, non padroni. Ma il tempo passa, e passando ci impone il movimento; qualche volta subiamo gli eventi, ci facciamo trascinare sperando che sia proprio il mutamento delle cose a risolvere certi problemi. Don Luciano ci ricorda un suo colloquio: “È inutile che tu cerchi il senso della vita solo camminando. Sarai deluso. Resterai sempre in compagnia dei tuoi limiti, perché li porti con te. Il senso della vita sta fuori di te, non è nell’orizzonte terreno, eppure lo si vive qui sulla terra” (Buenas Tardes, p. 89). Sant’Agostino andava avanti dicendo: “Chi corre bene non guarda dove mette i piedi, ma dove sta la meta” (Sermo 256, 5). Dove si va? Come ci si arriva? Ma verso dove si cammina? Per noi cristiani la risposta non è difficile; il problema, semmai, è che rispondere è la parte più semplice. In una predica sul Salmo 84, il vescovo d’Ippona afferma che l’uomo felice è colui che porta dentro di sé il desiderio di salire, di ascendere, non di restare fermo. Il cristiano deve mettere in conto le salite, le fatiche, gli sforzi, perché il cammino che conta non è quello orizzontale, ma quello verticale: si sale verso Dio, si cresce nella carità, si avanza nella fede. E la locomotiva? Noi con le nostre forze possiamo fare ben poco. Nella riflessione agostiniana ciò che ci muove è l’amore. Non basta quindi il camminare, non si arriverà molto lontano: bisogna sapere da cosa si è mossi e verso cosa ci si dirige.

Tutto l’uomo è mosso da ciò che ama

Agostino spiega che tutto l’uomo è mosso da ciò che ama.

Se ami il denaro, ti muoverai verso di esso; se ami l’onore, andrai in quella direzione; se ami Dio, il tuo cammino sarà verso di Lui. La direzione del nostro cammino è tracciata non tanto dai nostri pensieri o progetti, ma dai nostri affetti più profondi. Ecco perché, nel Sermo 169, Agostino non si limita a dire “cammina”, ma insiste: cammina amando, corri per amare, un circolo virtuoso che alimenta l’intensità interiore. Un pericolo serio, ci ricorda Agostino, è quello di smettere di camminare. Non perché ci opponiamo attivamente a Dio, ma perché ci raffreddiamo, ci adagiamo, diventiamo tiepidi. L’accidia – questa tristezza spirituale che ci fa perdere gusto per le cose di Dio – è uno dei nemici più subdoli. Non ci ferma subito: ci rallenta, ci appesantisce, ci fa sedere ai bordi della strada. Agostino ci ammonisce: attenzione a non scivolare dal riposo all’arresto definitivo. Così come il pellegrinaggio di domenica scorsa è stato un evento comunitario, ci conforta sapere che cammino cristiano non è mai solo individuale. Agostino ha una profonda visione ecclesiale: siamo tutti membra di un solo corpo, e camminiamo insieme. Non si cresce da soli, non si arriva a Dio da isolati. La Chiesa è il popolo in cammino, è la carovana dei pellegrini che avanzano sostenendosi a vicenda. Quando uno cade, l’altro lo rialza e se uno si smarrisce, l’altro lo richiama. Per Agostino, la vita cristiana è una continua ascesa, una lotta contro la legge del minimo sforzo. Non basta dire “sto bene così”, non basta mantenere una abitudine religiosa o evitare i grandi peccati. Bisogna crescere, avanzare, salire, perché chi smette di salire smette anche di vivere. In questo, Agostino è maestro di realismo spirituale: ci invita a guardare in faccia la nostra condizione, a riconoscere la necessità del progresso, a non illuderci di poter restare fermi.

Petrarca e l’ascesa al Monte Ventoso

Se vogliamo trovare nella letteratura una eco quasi perfetto della visione agostiniana del cammino, non possiamo non guardare a Francesco Petrarca e alla sua celebre lettera Ascesa al Monte Ventoso (Epistolae familiares IV,1), scritta nel 1336 e indirizzata a Dionigi di Borgo San Sepolcro. Petrarca racconta un’esperienza reale: la scalata, insieme al fratello, del monte Ventoso, in Provenza. Ma subito chiarisce al lettore che questa scalata è una metafora della sua vita interiore. Giunto in cima, contempla il panorama e, preso dall’ispirazione, apre a caso il libro delle Confessioni di Agostino, trovando un passo che gli parla direttamente: “E gli uomini vanno a contemplare le cime dei monti, le grandi onde del mare, il vasto corso dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso delle stelle, e trascurano se stessi.” (Confessiones, X, 8) Questo momento è per Petrarca uno spartiacque: si accorge che, fino a quel momento, ha guardato più fuori di sé che dentro di sé; ha cercato la bellezza, la gloria, l’elevazione, ma non ha ancora compiuto il cammino più difficile, quello dell’anima. L’ascesa al Monte Ventoso diventa quindi figura dell’ascesa spirituale. La fatica fisica, i sentieri tortuosi, i momenti di scoraggiamento, i ripensamenti lungo la strada, tutto questo è immagine della sua vita interiore. Lui stesso racconta che, più volte durante la scalata, aveva scelto il sentiero più facile e largo, salvo poi accorgersi che lo portava fuori strada. Questo dettaglio, apparentemente banale, è una allegoria morale: chi cerca la via più comoda finisce per allontanarsi dalla meta. Il paragone con Agostino non è casuale. Petrarca legge Agostino non solo come un padre della Chiesa, ma come un maestro di vita, un compagno di cammino. Le Confessioni diventano per lui lo specchio in cui guardarsi, vi si appoggia per leggere la propria esperienza. Ecco perché la scalata fisica culmina in un momento di introspezione: Petrarca comprende che la vera altezza non è quella dei monti, ma quella del cuore elevato a Dio. Scrive, infatti, alla fine della lettera: “Allora, pieno di stupore, mi fermai. Chiusi il libro, sdegnoso ormai delle cose terrene, e mi rivolsi a me stesso. Da quel giorno in poi, nessuno mi sentì più parlare di montagne.” Non è che Petrarca faccia una battuta, o rinneghi la bellezza della natura; capisce che Le tante montagne che aveva sognato di scalare, le tante ambizioni della vita, viste come cime da doppiare, ora contano poco. Come per Agostino, il cuore inquieto non trova pace nell’altezza del mondo, ma solo nell’altezza di Dio.  

Francesco Palazzolo