5^ Domenica di Quaresima
“DA CUORE A CUORE”
La fedeltà a se stessi
“Non è vinto se non colui che abbandona se stesso” (Sant’Agostino, Enarrationes in Psalmos, 144,14)
La sconfitta, per il Vescovo d’Ippona, non è mai innanzitutto esterna, politica, militare o culturale. È un cedimento dell’interiorità. Solo quando un uomo rinuncia alla propria identità più profonda, quando abdica alla propria vocazione, si può dire davvero sconfitto. “Non si perde che ciò che si lascia perdere,” dirà secoli dopo Antoine de Saint-Exupéry, e in questa semplice affermazione è racchiusa tutta la forza dell’idea cristiana della resistenza spirituale. Agostino, nella sua infaticabile ricerca della verità, insiste nel richiamare l’uomo al centro del suo essere. “Noli foras ire, in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas” — “Non andare fuori, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità.” È lì, nel cuore segreto dell’anima, che si combatte la vera battaglia. Ed è lì che si decide se resistere o cedere. Non c’è trincea più profonda dell’interiorità, nessun assalto esterno ha potere se non trova complicità nell’abbandono interiore. Ciò che non affrontiamo dentro di noi, prima o poi riemergerà, e spesso nei modi più inattesi. L’uomo può anche tentare di eludere la verità, ma essa non rinuncia mai a lui. A volte torna come un soffio lieve nella coscienza, altre come un richiamo insistente. La verità è cioè fedele, e non ci abbandona, nemmeno quando noi cerchiamo di abbandonarla. Le questioni irrisolte, le ferite mai guarite, le scelte, si ripresentano nel tempo a chiedere un bilancio di coerenza. Risuona la celebre battuta del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart: “Don Giovanni, a cenar teco m’invitasti, e son venuto.” Le nostre scelte, anche quelle non dichiarate, chiamano risposte. I pensieri accantonati, le responsabilità evitate, tornano come ospiti ineludibili che con insistenza domandano udienza. E in fondo, non c’è nulla di più liberante che affrontare ciò che prima ci faceva paura. Non c’è pace più autentica di quella che nasce da un passato riconciliato. Come scriveva C.S. Lewis: “Non puoi tornare indietro e cambiare l’inizio, ma puoi iniziare da dove sei e cambiare il finale.” La verità, anche quando sembra scomoda, è sempre un’opportunità di rinascita.
La resilienza del Friuli
Ed è qui che si rivela la grandezza dell’intuizione agostiniana: l’uomo non è vinto finché resta fedele a ciò che egli è davanti a Dio. E proprio qui, sorprendentemente, entra in gioco la storia concreta di un popolo e di una terra: il Friuli. Pochi luoghi incarnano con altrettanta dignità la verità contenuta nella sentenza agostiniana. Si pensi al trauma dell’invasione longobarda e alla devastazione di Aquileia nel VI secolo: poteva essere la fine ma comunità non fu vinta perché non disertò la propria identità. E così accadde nei secoli, nei conflitti medievali, nelle tensioni con Venezia, nei moti del Risorgimento, e ancora sotto l’urto violento della modernità. Ma nulla è eloquente quanto il terremoto del 1976. In poche ore, interi paesi vennero rasi al suolo. Si sarebbe potuto cedere allo scoramento, alla paralisi del lutto. Invece il popolo friulano scelse di non abbandonare se stesso: le fabbriche, le case, le chiese. Ma in verità, la prima pietra ricostruita fu invisibile: fu la coscienza di essere un popolo. Ciò che non si lascia morire, vive. E se in questi giorni abbiamo celebrato la festa della Patria del Friuli, non celebriamo una semplice commemorazione storica, ma la testimonianza di una fedeltà; alla propria lingua, alla propria memoria, alla propria vocazione spirituale e civile. Non è vinto chi non si lascia vincere, e il Friuli, pur ferito, ha saputo resistere senza perdere se stesso.
Nella scrittura, storia e letteratura
La Scrittura non tace su questo misterioso legame tra la fedeltà interiore e la forza nella prova. Pochi personaggi esprimono questa verità con la potenza di Giobbe. Derubato di tutto, colpito nel corpo, abbandonato persino dagli amici, non rinuncia però a essere se stesso davanti a Dio. “Anche se mi uccidesse, io spererei in lui” (Gb 13,15). Giobbe non è vinto perché non si svende. Non cerca una pace apparente, non pronuncia parole vuote solo per avere tregua. Rimane fedele alla verità, anche quando essa gli appare oscura. E alla fine, è Dio stesso che lo rivendica. Giobbe ci ricorda che la perseveranza non è ostinazione cieca, ma adesione profonda a ciò che si è nel cuore. Lo sapevano bene anche i padri del deserto, che nel silenzio delle grotte egiziane cercavano non la fuga dal mondo, ma l’essenza dell’uomo. E uno di loro, Evagrio Pontico, scriveva che il più grande nemico della vita spirituale non è il peccato, ma l’accidia, cioè quel torpore interiore che ci fa smettere di lottare, di cercare, di credere. L’accidia è il rifiuto di essere quello che si è chiamati a essere. È la resa silenziosa che precede ogni sconfitta. Ecco perché i monaci, pur vivendo in solitudine, combattevano ogni giorno una guerra vera: non contro uomini, ma contro la tentazione di disertare il proprio cuore. Tra le molte immagini che la letteratura ci ha lasciato della fedeltà silenziosa, è interessante considerare Dino Buzzati ne Il deserto dei Tartari. Il tenente Drogo attende per anni, ai confini di un regno che non attacca mai, l’arrivo di un nemico che forse non verrà. Intorno a lui, il tempo si disgrega, i compagni cambiano, il corpo invecchia. Eppure, alla fine, quando il destino si mostra — come un lampo tardivo — egli è ancora lì, al suo posto. Non per ingenuità, né per eroismo, ma per una forma di fedeltà a se stesso, alla propria vocazione, a quella “chiamata muta” che gli aveva indicato un confine da abitare. È un’immagine forte, quasi ascetica, di quella vigilanza interiore che spesso il nostro tempo deride, ma che forse è una delle poche realtà capaci di resistere al consumo dell’anima. E c’è qualcosa di profondamente cristiano in questa disponibilità a restare, anche quando nulla sembra accadere. Non è forse questa la fede: rimanere presenti, anche quando tutto intorno tace? Viviamo giorni in cui si confonde la verità con l’efficienza, la giustizia con la visibilità, la vocazione con il risultato. Ma ciò che veramente fonda la vita è altrove: è nella scelta costante di abitare ciò che si è, anche senza prove, anche senza garanzie. Ogni uomo e ogni donna che rimangono fedeli alla propria coscienza nel quotidiano — in famiglia, nel lavoro, nel lutto, nel perdono — testimoniano che non è vinto chi non si lascia vincere. La verità non si afferma a colpi di parole, ma con la coerenza di una presenza. Ecco perché, alla fine, Agostino ha ragione: non è vinto se non colui che diserta se stesso. Chi non fugge da ciò che è, alla lunga, costruisce.
Francesco Palazzolo