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4^ Domenica di Quaresima

“DA CUORE A CUORE”

In cerca della città futura

La città terrena, non vivendo secondo la fede, ricerca la gloria degli uomini e si vanta delle proprie opere.” Sant’Agostino, La Città di Dio, Libro V, 14

Il Sacco di Roma del 410 d.C. rivela la vulnerabilità dell’Impero Romano, la città eterna si rivela caduca, l’ordine del mondo sembra perso. La civiltà si interroga su dove Dio sia in tutto questo. Alcuni pagani accusano il cristianesimo di aver indebolito l’Urbe, privandola dei suoi dèi protettori. Sant’Agostino, in tutta risposta, propone una nuova teologia della storia.

Al cuore del suo pensiero c’è la contrapposizione tra due città: la civitas terrena, fondata sull’amore di sé fino al disprezzo di Dio, e la civitas Dei, fondata sull’amore di Dio fino al disprezzo di sé. La città terrena è l’immagine della superbia, dell’uomo che confida nelle proprie forze e cerca la gloria mondana. È Caino che costruisce la prima città (Gen 4,17), è Babilonia che si innalza fino al cielo (Gen 11,4), è Roma che si inorgoglisce della propria grandezza e non riconosce la provvidenza divina.

Agostino non nega che il mondo abbia un valore: in esso vivono i giusti e i peccatori, i santi e i malvagi. Ma la città terrena rimane precaria e temporanea, proprio perché soggetta allo scorrere del tempo. Il suo intento non è demonizzare la storia, ma mostrare ai cristiani che la loro vera patria non è qui. Scrive per i suoi diocesani, affinché non si scoraggino di fronte ai rovesci del mondo, ma comprendano che “non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura” (Eb 13,14).

Questa prospettiva conduce a una presenza consapevole: il cristiano vive nel mondo senza appartenervi. Qui si innesta il grande tema del rapporto tra il credente e il mondo, e tra la Chiesa e la società. Se Agostino getta le basi di questa riflessione, altri santi, in epoche diverse, ne hanno incarnato le implicazioni.

San Francesco di Sales e il cristiano nel mondo

Tra questi, San Francesco di Sales si distingue per il suo approccio positivo e fiducioso. Vescovo nella Chiesa del Seicento, epoca di guerre religiose e divisioni, egli non si rifugia in una visione polemica o difensiva, ma indica una via di santità per tutti, anche per chi vive nel mondo. Il suo Filotea è un vero e proprio trattato di spiritualità per i laici: “È un errore, anzi un’eresia, voler escludere l’esercizio della devozione dalla vita militare, dalla bottega degli artigiani, dalla corte dei principi, dalla vita coniugale” (Filotea, I, 3).

Comprende che la città terrena, con tutte le sue occupazioni e responsabilità, non è un ostacolo alla santità, ma il luogo in cui essa si realizza. Il cristiano è chiamato a trascendere il mondo dal suo interno, senza fughe.

  • un’idea che troverà piena espressione nel Concilio Vaticano II, quando si affermerà che i laici “sono chiamati da Dio perché, mossi dallo spirito cristiano, esercitino il loro apostolato nel mondo, a modo di  fermento” (Apostolicam Actuositatem, 2).

Un altro esempio significativo è San Giovanni Bosco, che vive nel secolo XIX, in piena rivoluzione industriale. Il suo impegno per i giovani operai, il suo dialogo con la società del tempo, la sua capacità di leggere i segni dei tempi e rispondere con creatività e coraggio ne fanno un modello di santità “nel mondo”. Non si oppone alla modernità, ma cerca di evangelizzarla dall’interno, anticipando il pensiero sociale della Chiesa.

Le encicliche: la Chiesa interpreta il mondo

I pontefici, lungo i secoli, hanno progressivamente affinato lo sguardo della Chiesa sul mondo, non come una realtà da combattere, ma da comprendere e redimere. Il primo documento della Chiesa che affronta in modo sistematico la questione sociale è la Rerum Novarum (1891) di Leone XIII, che difende la dignità dei lavoratori e afferma il principio della giustizia sociale. Con essa, la Chiesa entra con autorità nel dibattito sulle trasformazioni economiche e sociali della modernità. Da allora, le encicliche sociali hanno segnato la storia: Quadragesimo Anno (1931) di Pio XI affronta la crisi del capitalismo e propone il principio della sussidiarietà; Mater et Magistra (1961) di Giovanni XXIII amplia l’orizzonte alla cooperazione internazionale; Populorum Progressio (1967) di Paolo VI fa dell’opzione per i poveri un criterio di giudizio sulla politica e l’economia. Giovanni Paolo II, con Centesimus Annus (1991), riflette sulla caduta del comunismo e sulle sfide della globalizzazione. Benedetto XVI, con Caritas in Veritate (2009), evidenzia il nesso tra etica e sviluppo, mentre Papa Francesco, nella Laudato Si’ (2015), allarga la prospettiva alla cura della casa comune, mostrando che la questione ecologica è inseparabile da quella sociale.

In tutto questo emerge un filo conduttore: la Chiesa si fa interprete dei bisogni più profondi del mondo e, come si è visto, con notevole lungimiranza.

Conclusione

La città terrena, con le sue contraddizioni e le sue promesse, resta il luogo in cui il cristiano è chiamato a vivere. Agostino ci insegna che non possiamo riporre la nostra fiducia nelle strutture umane, perché “passa la scena di questo mondo” (1 Cor 7,31). Ma ci insegna anche che, finché siamo qui, il nostro compito è vivere in un certo modo.

San Francesco di Sales e San Giovanni Bosco ci mostrano che non si tratta di fuggire dal mondo, ma di abitarlo con fede. E il magistero della Chiesa continua a discernere i segni dei tempi, offrendo una bussola per orientarsi in un mondo che cambia.

Il cristiano vive nel mondo senza appartenere al mondo (Gv 17,16). È cittadino della terra, ma con lo sguardo rivolto al cielo. Ed è proprio questa tensione, questa duplice appartenenza, a rendere la sua presenza feconda.

Francesco Palazzolo