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6^ Domenica di Pasqua

“DA CUORE A CUORE”

“La forza dell’abitudine mi trascinava con sé, e mi diceva: ‘Pensi forse di potermi abbandonare?’”

(Sant’Agostino, Confessioni, VIII, 5, 10)

Nella vicenda umana della conversione di sant’Agostino si cela un dramma interiore di straordinaria intensità, una lotta minuziosamente descritta. Come ha ricordato Papa Giovanni Paolo I nella sua Udienza Generale del 13 settembre 1978, Agostino stesso racconta il suo cammino di fede come un viaggio tormentato, quasi un convulso agitarsi dell’anima: “Di qua, Dio che lo chiama e insiste, e di là le antiche abitudini, “vecchie amiche – scrive lui – e mi tiravano dolcemente per il mio vestito di carne e mi dicevano: ‘Agostino, come?!, tu ci abbandoni? Guarda che tu non potrai più far questo, non potrai più far quell’altro e per sempre!’”. Questo contrasto tra l’affermarsi della vocazione e il peso dell’abitudine è emblematico di quell’“abitudo” che troppo tardi si riconosce dannosa, che imprigiona con la sua forza apparentemente lieve. Giovanni Paolo I prosegue con un’immagine familiare e semplice, ma di profonda efficacia pedagogica: “Mi trovavo – dice – nello stato di uno che è a letto, al mattino”. Gli dicono: ‘Fuori, Agostino, alzati!’. Lui invece, diceva: ‘Sì, ma più tardi, ancora un pochino!’. “Finalmente il Signore mi ha dato uno strattone, sono andato fuori”. Ecco, non bisogna dire: Sì, ma; sì, ma più tardi. Bisogna dire: Signore, sì! Subito! Questa è la fede. Rispondere con generosità al Signore. Ma chi è che dice questo sì? Chi è umile e si fida di Dio completamente!”.

Le catene invisibili

Nel mondo moderno abbiamo affinato le tecniche per spezzare le dipendenze fisiche, abbiamo nomi e trattamenti per ogni patologia del desiderio. Ma conosciamo meno le abitudini morali, quelle che non hanno sintomi esteriori. Viviamo dentro abitudini di pensiero, abitudini di giudizio, abitudini di pigrizia spirituale. Ci abituiamo a parlare male, a pensare il peggio, ad aspettarci poco dagli altri e da Dio. Queste predisposizioni sono dei paraocchi, o peggio, delle pesanti catene. Dickens, nel Canto di Natale, condensa: “Le catene dell’abitudine sono troppo leggere per essere sentite, finché non diventano troppo pesanti per essere spezzate.” Una verità che Agostino avrebbe sottoscritto parola per parola. Le abitudini iniziano come scelte volontarie, poi diventano automatismi e infine si fanno identità. Non si sa più distinguere ciò che si è scelto da ciò che si è semplicemente ereditato da se stessi. È il punto in cui il male non viene più percepito come tale, ma come inevitabile. Il risveglio dell’anima – Canto di Natale di Dickens Nel Canto di Natale di Charles Dickens, l’avaro Scrooge è un uomo prigioniero non del male, ma dell’abitudine al proprio egoismo. Tutta la sua vita si è costruita sull’accumulo, sul controllo, sull’efficienza arida. Talmente è trincerato in questo suo comportamento che non è bastata la vista di uno spirito, ne sono serviti quattro!

La sua conversione, come quella di Agostino, non è istantanea. È preparata da un processo e tra tutte le apparizioni, quella più incisiva non è Marley, il Passato o il Presente, ma il Futuro. Lo Spirito del futuro non parla, non tenta di convincerlo ma gli mostra come sarà l’avvenire. E in quella muta visione, Scrooge si vede defunto, dimenticato, deriso. Nessuno lo compiange. Gli oggetti della sua casa sono venduti per pochi spiccioli da domestici senza nome; è il volto più duro dell’indifferenza. E lì, in quel silenzio, l’uomo sente per la prima volta la voce della coscienza. Dickens scrive con precisione: “L’uomo a cui apparteneva quel letto non era stato amato in vita, e non sarebbe stato rimpianto in morte.” Scrooge trema. E per la prima volta chiede: “Sono queste le ombre di ciò che accadrà, o solo di ciò che può accadere?”, ci fa un pensierino! Sa che quel futuro è una possibilità e nasce in lui l’idea di poter evitare quell’esito. E grida, come Agostino: “Voglio essere diverso!” La grazia, nel linguaggio di Dickens, passa per l’immaginazione, ma il miracolo non è minore: l’uomo si sveglia nuovo.

Le manifestazioni concrete

Ciò che rende potente questa scena non è il cambiamento in sé, ma la conversione delle abitudini. Scrooge non diventa un santo astratto. Si alza al mattino e inizia a vivere diversamente. Inizia a fare ciò che non aveva mai fatto: ascolta, dona, si lascia toccare. La sua redenzione non è uno stato d’animo, ma una serie di nuovi gesti. L’abitudine al possesso viene rotta dall’abitudine alla generosità. Scrooge non è un uomo redento perché si sente meglio: lo è perché inizia ad agire in modo nuovo. Il vero miracolo è questo: che l’anima si lasci plasmare da nuove scelte, e che queste, ripetute, diventino nuove abitudini. Perché l’uomo non può vivere senza abitudini. Ma può scegliere quali coltivare. Ecco perché la redenzione cristiana è un cammino. Un’aggiunta quotidiana di bene. La tradizione monastica ha sempre saputo che la vera libertà non è fare ogni giorno qualcosa di diverso, ma imparare a fare ogni giorno lo stesso bene con fedeltà nuova. Agostino comprese che l’abitudine non si può lasciare se non con uno strappo. E che quello strappo, per non lacerare l’anima, ha bisogno di un’altra forza: la grazia di Dio. Non si tratta di sforzarsi di essere migliori. Si tratta di lasciarsi riplasmare da Colui che ha fatto nuove tutte le cose.  

Francesco Palazzolo