Solennità della SS. Trinità
“DA CUORE A CUORE”
“Guai a me se non predicassi il Vangelo! Poiché mi è stata affidata una dispensazione.”
Confessioni, XIII, 9, 10
L’apostolo Paolo scrive con una franchezza: “Guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ne ho ricompensa; se invece non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato” (1Cor 9,16-17). Il termine greco che traduce “incarico” è oikonomía, da cui derivano “economia” e “dispensazione”. È il compito di chi amministra, di chi distribuisce secondo un disegno non suo. Sant’Agostino, commentando questi versetti, parla della dispensatio verbi – la dispensazione della Parola – come di una missione che grava su chi la riceve. Si parla, cioè, del sacerdote, che nella visione biblica e patristica, non è un iniziatore, ma un servitore. È, per usare l’immagine di Agostino, uno che “dispensa” il pane di vita, che non è suo, ma di Dio. Dice il Santo: “Non siamo pastori vostri come padroni, ma come servi” (Serm. 46,3).
L’immagine è quella “dell’economo evangelico’”, descritto da Gesù nel Vangelo: “Chi è dunque l’amministratore fedele e saggio, che il padrone metterà a capo della sua servitù per distribuire a tempo debito la razione di cibo?” (Lc 12,42). È quindi una missione: “Andate, dunque, e fate discepoli tutti i popoli… insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20). Il peso del ministero è tutto il contrario di una carriera; San Gregorio Magno, parlando del vescovo, diceva: “Ogni giorno cado sotto il peso dell’ufficio esteriore, mentre anelo alla quiete della contemplazione” (Regula Pastoralis I,2). Pensiamo al pastore nel presepe, lui ha solitamente un unico fardello sulle spalle: una pecorella, mica poco! Condurre questa e tutte le altre pecore non lo investe solo di un’autorità, ma lo affida alla responsabilità di amare. Il pastore, se è tale, vive per le sue pecore. Non ha giorni liberi, non ha tempo per sé. È un uomo che “porta addosso l’odore delle sue pecore” (cf. Papa Francesco), e che impara ogni giorno a dare la vita, come il Maestro.
L’imposizione delle mani
Durante una ordinazione sacerdotale, vi è il gesto (che è realmente un sacramento) dell’imposizione delle mani da parte del Vescovo; questo segno riassume un intero percorso esistenziale. Nella nascita della loro vocazione, i sacerdoti hanno incontrato il Signore e sentito la sua parola: “Seguimi!“. Seguono quella voce inizialmente in modo un po’ malsicuro, volgendosi indietro e chiedendosi se quella sia veramente la loro strada. E in qualche punto del cammino hanno forse fatto l’esperienza di Pietro dopo la pesca miracolosa, sono cioè rimasti spaventati per la sua grandezza, la grandezza del compito, così da volersi tirare indietro: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore!” (Lc 5, 8). Ma poi Egli, con grande bontà, li ha presi per mano. Forse più di una volta ad ognuno di loro è accaduta la stessa cosa che a Pietro quando, camminando sulle acque incontro al Signore, improvvisamente si è accorto che l’acqua non lo sosteneva e che stava per affondare. E come Pietro avranno gridato: “Signore, salvami!” (Mt, 14, 30). Ma ancora il Signore ha donato loro la leggerezza che deriva dalla fede e che ci attrae verso l’alto, la fede in Gesù è il mezzo grazie al quale Egli prende nelle sue mani quelle dei sacerdoti, le stesse mani che, nella persona del vescovo, impone loro durante l’ordinazione.
Sacerdote d’oro, calice di legno
Durante i lavori del Concilio Vaticano II, emerse da una delle sessioni una massima folgorante: “Sacerdos sit aurum, calix lignum” – che il sacerdote sia d’oro, anche se il calice è di legno. Non è l’ornamento liturgico che va esaltato, non è la bellezza dell’argento o l’oro cesellato che dà dignità alla celebrazione. È l’anima del ministro: la trasparenza del suo cuore, la limpidezza della sua fede, la coerenza della sua vita. Anche se il calice è di legno, povero e nudo, se le mani che lo sollevano sono mani consacrate, allora quell’Eucaristia sarà “luce per il mondo”. In tempi che non sono mai semplici – perché, nella sua esperienza di venti secoli, non ci sono mai stati tempi semplici per la Chiesa – le comunità cristiane sono chiamate a stringersi attorno alla Parola di Dio e al proprio pastore. Il sacerdote non solo è funzionario del culto ed amministratore; questi sono ruoli che compongono una minima, seppur faticosa, parte della sua missione. Il sacerdote è propriamente un alter Christus, un uomo posto a ponte tra Dio e il popolo. È colui che rende presente, in parole e gesti, il Signore stesso. In questa luce, le nostre comunità – piccole porzioni del popolo santo di Dio – sono pellegrine, guidate da pastori che, riferimenti saldi, nella loro concreta e ordinaria presenza custodiscono quanto c’è di visibile ed invisibile nella Chiesa; il passato e il presente, affinché nulla di ciò che Dio ha seminato vada disperso nel vento del tempo. È un lavoro di traghettamento: nei passaggi di generazione, nel susseguirsi delle prove, nei cammini individuali di fede. Ed è giusto che si senta e si manifesti gratitudine verso i nostri sacerdoti, che riuniscono e reggono ogni parte del corpo della Chiesa attraverso il tempo.
Francesco Palazzolo