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3^ Domenica di Pasqua

“DA CUORE A CUORE”

“Ci hai fatti per Te, e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in Te”

(Sant’Agostino, Confessiones, I,1)

Il cuore inquieto dell’uomo moderno

«Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te». Con queste parole, più che aprire le sue Confessiones, sant’Agostino apre un varco nel cuore dell’uomo di ogni tempo. La confessione dell’uomo antico diventa la diagnosi profetica dell’uomo moderno: inquieto, errante, saturo di parole e vuoto di senso. Non vi è frase che abbia riassunto con altrettanta potenza la condizione esistenziale dell’uomo: creato da Dio e per Dio, e perciò stesso incapace di pace finché non torna a Lui. La modernità, nella sua febbrile ricerca di autonomia, ha tentato ogni via per tacitare questa inquietudine: la scienza, il piacere, il potere, l’arte, la tecnica… Ma nulla ha potuto colmare quel vuoto che non è solo emotivo, ma ontologico. L’uomo, diceva Pascal, è un essere che «cerca con angoscia» (Pensées, n. 148): cerca qualcosa che non sa nominare, ma che conosce intimamente. Perciò, come ha scritto Eliot, “l’uomo moderno ha perso il senso non solo di Dio, ma anche del proprio io”. La coscienza si è come prosciugata. Eppure — lo si voglia o no — quell’inquietudine resta. È una voce sommessa che, seppur coperta da mille distrazioni, non tace mai del tutto. Sant’Agostino, in questo, è il testimone del cuore che cerca, della ragione che interroga, della volontà che si dibatte tra due amori. E che scopre, infine, che c’è un solo luogo in cui il cuore può trovare pace: non in un’idea, non in un’ideologia, ma in una Presenza.

La nostalgia dell’Eterno

Ciò che l’uomo percepisce come disagio — quell’insofferenza che lo accompagna anche nei momenti di apparente successo — è in realtà un segno di elezione. È la nostalgia di Dio. Una nostalgia che, se coltivata nella preghiera e nella lettura del cuore, diventa via alla conversione.

Agostino stesso racconta nelle Confessioni il travaglio della sua ricerca, che passa attraverso i piaceri, la filosofia, le amicizie, l’ambizione. “Ero diventato per me stesso un grande enigma” (Confessiones, IV, 4, 9). E proprio nel momento di massima confusione, quando ogni sapienza umana sembrava infrangersi sul mistero del male, avviene l’incontro con la Scrittura, grazie a sant’Ambrogio, e con essa la rinascita dell’anima. La teologia dell’inquietudine di Agostino si oppone frontalmente alla cultura dell’anestesia spirituale. Oggi si cerca di spegnere ogni voce interiore con la distrazione continua, essere interiormente sradicati permette di trapiantarci con facilità. Agostino invece ci insegna a non avere paura del nostro vuoto, a non rifuggire la solitudine. «Torna in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità» (De vera religione, XXXIX, 72). L’inquietudine è una condizione temporanea, il suo scopo è scuoterci. A seguire è ciò che Agostino chiama conversione: un movimento della volontà illuminata dalla grazia. “Mi tenevo in sospeso tra la volontà di andare avanti e quella di restare indietro” (Confessiones, VIII, 11, 25). È il momento dello strappo, del pianto sotto il fico, del “tolle, lege”— prendi e leggi, è l’adesione, l’incontro con Cristo. Come dirà san Tommaso d’Aquino: «La nostra pace è Cristo stesso» (Summa Theologiae, III, q. 22, a. 1). Anche oggi Agostino ci ricorda che l’uomo non si salva da solo. La beatitudine non è un prodotto, ma una relazione. «Ci hai fatti per Te, e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in Te». Non è solo un’affermazione teologica, è un grido umano, una confessione universale. L’uomo è un mendicante d’infinito, e solo l’Infinito fatto carne – “Cristo, il Dio vicino” – può colmarlo. Sant’Agostino, con la forza del convertito e la profondità del sapiente, ci invita a non temere l’inquietudine, ma a leggerla come un segno, un sacramento del desiderio, una via che porta a casa.

Bellezza tanto antica, tanto nuova

Agostino chiama Dio bellezza. E lo fa in un tempo in cui la bellezza era ancora il termine supremo della filosofia e dell’arte. Ma qui la bellezza non è ornamento né armonia: “è pienezza dell’essere, splendore della verità, irradiazione del bene” secondo quella triade platonica che il cristianesimo ha fatto propria nella descrizione del Creatore. Dio è antico, perché non soggetto al tempo. È prima di ogni storia, prima di ogni desiderio, prima di ogni parola. «Prima che Abramo fosse, Io Sono» (Gv 8,58): è questa l’antichità divina, non cronologica ma ontologica, l’anteriorità dell’eterno” di cui parlava Hans Urs von Balthasar. Ma Dio è anche nuovo. Non nel senso che cambi, ma nel senso che si rinnova. Ogni volta che l’uomo lo incontra, Dio è come se fosse la prima volta. «Le sue misericordie non sono finite: si rinnovano ogni mattina» (Lam 3,22-23). Agostino aveva camminato a lungo tra le filosofie, e aveva cercato Dio come concetto. Ma quando lo ha trovato come presenza, lo ha visto come bellezza. E quella bellezza lo ha vinto. «Mi chiamasti e gridasti, e squarciasti la mia sordità; balenasti, risplendesti e mettesti in fuga la mia cecità» (Confessiones X, 27, 38). Ogni autentica conversione nasce da un’estetica dell’incontro. Non si inizia ad amare Dio perché lo si capisce, ma perché lo si vede. E lo si vede non con gli occhi del corpo, ma con quelli del cuore.                                                                                                

Francesco Palazzolo