La “luce di Betlemme” è stata portata in Cattedrale dagli Scout Cattolici d’Europa e collocata a fianco del presepio, presso la seconda cappella entrando a destra. Chi desidera , più attingere un lumino alla fiamma , portarlo a casa e deporlo davanti al proprio presepio.

Si invita a partecipare a tre iniziative di carità che sono presentate tramite qualche fotografia sul pannello che sta accanto.

Che cos’è la Luce della Pace

La Luce di Betlemme è una piccola fiammella che ogni anno viene accesa nella grotta della Natività di Betlemme, dove arde in modo continuo una lampada alimentata a turno dalle diverse nazioni cristiane della Terra. Questa lampada viene poi portata in Austria e da qui verso tutti gli altri Paesi. La fiammella è stata subito identificata come «Luce della Pace» perché diventa un segno concreto di pace, di fraternità e di speranza, anche nei confronti delle persone che vivono in terre ferite dai conflitti. Erano trascorsi circa quarant’anni dalla fine della Seconda Guerra mondiale quando la prima “Luce della Pace” raggiunse l’Austria.  Dall’inizio degli anni Novanta quella fiammella arriva anche in Friuli, quest’anno grazie alla speciale staffetta promossa in sinergia inter-associativa dai gruppi Scout della regione: Scout d’Europa, Agesci e Masci. Insieme, a ribadire – anche attraverso la collaborazione delle tre realtà – che la pace si costruisce tutti i giorni, con piccoli gesti di fratellanza.

Carissimi, siamo giunti quasi al termine dell’anno giubilare che ci ha dato l’opportunità di riflet­tere sul nostro pellegrinaggio nella storia come portatori di una “Speranza che non delude”. Ora la nostra speranza si fa car­ne umana. Viene Gesù, il Figlio di Dio, e ci aiuta a prendere coscienza della situazione, con realismo.

Natale è anche fermarsi a ri­flettere. Non è solo luminarie esterne ma luce interiore. Si nota sempre di più la divi­sione tra le persone che pensano e quel­le che non pensano. Crisi della società. Si usa dire “società li­quida” perché nulla è sicuro, non il lavoro che è instabile, non la famiglia che vediamo così fragile mentre dovrebbe essere un caposaldo per una crescita serena dei figli e della società, non la comuni­tà che è frantumata mentre do­vrebbe essere il “villaggio” per educare le giovani generazioni. Tutto è precario. Il futuro ci ap­pare incerto. La crisi della chiesa. Vede tanti abbandoni, nota tan­ta indifferenza, incontra tante difficoltà a trasmettere il Vange­lo. La crisi mondiale: per le pre­occupazioni economiche, per il cambiamento climatico, per l’in­stabilità politica, per le guerre. Si potrebbe continuare. Da qui nascono solo paure. Paura degli altri, paura di morire, paura del­le calamità naturali.

Ed allora ci scoraggiamo? Chiudiamo gli oc­chi? Guardiamo semplicemente oltre la siepe per immaginarci un mondo di fantasia? Direi di no. “Non temete” dice l’angelo ai pastori “Vi annunzio una grande gioia per tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, vi è nato un salvatore che è il Messia Signo­re”. Il mondo non cambia per­ché stiamo con le mani in mano ad attendere, pieni di paura o rassegnati. L’attesa di un mon­do migliore deve poggiare su una speranza solida e deve es­sere operosa. La nostra speranza è Cristo Signore. È il Regno di Dio, è qui presente e cammina dentro il nostro tempo. È il “Sole di giustizia” che sorge a Nata­le. È la creazione che sempre si rinnova. Questo Regno soffre sempre le doglie del parto e na­sce continuamente nel tempo. La natura stessa ci parla. Dopo l’inverno viene la primavera, la notte cova l’alba, dopo il tempo­rale appare l’arcobaleno nel cie­lo e torna il sole. È la natura che in qualche modo ci incoraggia.

Ma anche noi siamo chiama­ti a donare il nostro contributo perché il Regno cresca. Le paure che proviamo nel nostro tempo o ci rendono ciechi o ci aprono gli occhi. Ecco ci possono aprire gli occhi sulla situazione perché prendiamo coscienza che la sto­ria non è nelle mani dei potenti del mondo ma è nelle mani di Dio. Coltiviamo la costanza del contadino che, nonostante la paura della grandine, continua a seminare con la speranza di poter raccogliere il frutto delle sue fatiche. Soprattutto ci pren­diamo le nostre responsabilità: nelle istituzioni, nel lavoro, nella professione, nella scuola, nella politica, nella fa­miglia.

E poi non vi sembra che sia ne­cessaria una gran­de alleanza tra le “agenzie educative” delle nuove gene­razioni?

Scuola, comunità, associazioni spor­tive sono una for­za propositiva e promotrice di va­lori che si possono condividere. Ed in­fatti ci sono belle esperienze in atto e buone pratiche che meriterebbero essere raccontate e conosciu­te. Ma anche una alleanza tra le generazioni. Una immagine eloquente la richiama. La scena viene descritta da Virgilio nell’ Eneide: Enea fuggendo da Troia approda in Italia portando sulle spalle il vecchio padre Anchise e tenendo per mano il figlioletto Ascanio. Non c’è futuro senza il passato. Non ci sono piante senza radici e non ci sono frut­ti senza piante.

Carissimi, a voi tutti anche a nome del Capitolo metropolitano e di tutti i colla­boratori della Parrocchia auguro buon Natale ed un anno ricco di opportunità di bene per il mon­do. Questa opportunità viene posta anche nelle nostre mani.

Cordialmente

Il Parroco

Mons. Luciano Nobile

Il “MISSUS” TORNA A CASA

Pieve di S. Maria di castello – lunedì 15 dicembre ore 19.00

Anzi: siccome è di casa in tutto il Friuli (e anche oltre, essendo un’eredità dell’antico e vastissimo patriarcato di Aquileia), il canto del Vangelo dell’Annunciazione dell’angelo a Maria riecheggerà nel luogo da cui è partito a cavallo tra Cinquecento e Seicento, per opera dell’allora patriarca aquileiese Francesco Barbaro. Sarà la pieve di Santa Maria in Castello, a Udine, a ospitare lunedì 15 dicembre la prima celebrazione della Novena di Natale dopo i lavori di restauro conclusisi lo scorso ottobre. La celebrazione inizierà alle 19 sarà presieduta dall’arcivescovo mons. Riccardo Lamba, con esecuzione del Missus di Jacopo Tomadini – versione meno conosciuta rispetto a quella di Candotti, ma non per questo meno pregiata dal punto di vista musicale – da parte della Cappella musicale della Cattedrale di Udine. L’appuntamento è inserito anche nel programma di «Natale in città», promosso dall’Arcidiocesi di Udine.

Un patrimonio dell’intero Friuli

Iniziata sul colle del castello di Udine, la tradizione del canto del Missus non è affatto proprietà della pieve udinese. Tutt’altro. Per nove giorni, dal 15 dicembre fino all’antivigilia di Natale, tutto il Friuli contempla con il canto l’evento dell’incarnazione di Gesù. «Le origini della tradizione liturgica del Missus non sono state mai definite con assoluta certezza» spiega mons. Loris Della Pietra, direttore dell’Ufficio liturgico diocesano. «Le origini del canto dell’Annunciazione nella novena prenatalizia friulana potrebbero infatti essere illuminate da alcuni indizi offerti dal Codex Rehdigeranus, un documento liturgico di area aquileiese del VI secolo». A questo si aggiunge la tradizione medievale di realizzare delle rappresentazioni viventi delle narrazioni bibliche sui sagrati delle chiese, per catechizzare la popolazione. «In questo contesto – prosegue mons. Della Pietra – sono state riscontrate testimonianze dello “Zu del agnul e de Maria”, ricordato dai registri dei camerari gemonesi come vera drammatizzazione dell’Annunciazione attraverso figuranti che rappresentavano i personaggi coinvolti nell’avvenimento». Fino ad arrivare alla fine del Cinquecento, quando con l’abolizione del rito patriarchino si concluse anche l’esperienza delle sacre rappresentazioni. Il canto dell’Annunciazione, tuttavia, fu recuperato nella Novena di Natale istituita proprio dal patriarca Francesco Barbaro in quegli anni. «È importante notare che il canto del Missus quale parte della novena di Natale era uso esclusivamente friulano, cosa provata dal fatto che in nessun formulario di preghiere per la novena stampato al di fuori del Friuli era compreso il testo di san Luca», spiega ancora Della Pietra

Candotti o Tomadini? Le note della Novena

Oggi la tradizione del canto del Missus prosegue non senza le difficoltà date dal periodo storico, sebbene, le melodie utilizzate e la forma dialogata con tre voci – l’angelo, Maria e il “narratore” – aiutano ad amare questa forma di preghiera. Le vivaci e diffusissime note di Giovanni Battista Candotti rendono allegra e briosa la narrazione e la cantata, ma il compositore cividalese non fu l’unico a mettere in musica il brano dell’Annunciazione: tra gli altri, infatti, si ricordano Jacopo Tomadini (allievo di Candotti), Vittorio Franz (autore di cinque Missus), Raffaele Tomadini, Giovanni Battista Cossetti, Carlo Rieppi e Antonio Foraboschi. Soprattutto in Carnia, invece, sopravvivono numerosi esempi di esecuzione con melodie patriarchine. Diversa, invece, la tradizione nelle Valli del Natisone, dove la Novena del Natale non prevede il canto del Missus. Nella Benecia si celebra la Devetica Božična, una devozione mariana prenatalizia fatta di invocazioni e preghiera del Rosario, vissuta solitamente nelle famiglie e recentemente celebrata, invece, nelle chiese delle diverse comunità. 

(Giovanni Lesa)

Il valore attuale del Natale

Ogni anno, quando arrivano le settimane che precedono il Natale, mi accorgo di quanto questa festa venga vissuta in modo diverso rispetto al suo significato più autentico. Le città si riempiono di luci, i negozi invitano a comprare sempre di più, e spesso sembra che tutto ruoti attorno ai regali, alle cene e a un clima di festa un po’ superficiale. È facile lasciarsi trascinare dalla fretta, dal rumore e dalle mille cose da fare, fino al punto da dimenticare ciò che il Natale realmente celebra. Eppure, basta fermarsi un istante per riscoprire il cuore di questa festa. Nel silenzio della grotta di Betlemme, Dio si fa vicino a noi in un modo sorprendente: non con la forza, ma nella fragilità di un Bambino. È un messaggio che parla al cuore più di qualunque decorazione o regalo: l’amore di Dio che entra nella nostra storia, che sceglie di abitare le nostre ferite, le nostre fatiche, le nostre gioie quotidiane. Il vero Natale non è fatto di luci esteriori, ma di una luce che nasce dentro. È la luce che ci spinge ad aprire il cuore agli altri, a fare spazio, a riconciliarci, a tendere la mano a chi è solo o in difficoltà. È anche il momento in cui, come comunità, ci sentiamo più uniti: nelle nostre celebrazioni, nei gesti di carità, nelle preghiere condivise. E proprio qui, nella semplicità delle nostre parrocchie, ritroviamo la bellezza di un Natale vissuto in modo autentico.

Non si tratta di rinnegare le tradizioni che amiamo – il presepe, l’albero, i doni, i momenti in famiglia – ma di riportarle al loro significato. Ogni gesto può diventare un segno di amore e non solo un’abitudine, ogni incontro, un’occasione per ricordare che, attraverso la nascita di Gesù, Dio continua a visitare le nostre vite. 

Il Natale di oggi rischia di farci guardare verso l’esterno, ma il Natale vero ci invita a guardare verso l’alto e verso l’interno. E forse il dono più grande che possiamo farci è proprio questo: rallentare, fare silenzio, e lasciare che la gioia del Vangelo illumini i nostri giorni. 

Che questo Natale possa essere, per ciascuno di noi, un ritorno alla sorgente. A quel Bambino che, con la sua semplicità, continua a ricordarci che l’amore è l’unica luce che non si spegne. Auguri!

(Sebastiano Ribaudo)

CONVERTITEVI: IL REGNO DEI CIELI È VICINO!

(Dalla Lectio divina di d. Cristiano Cavedon)

“In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea, dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!»” (Mt 3,1-2). La sua missione è stata quella di preparare e spianare la via davanti al Messia, chiamando il  popolo d’Israele a pentirsi dei propri peccati e a correggere ogni iniquità. Con parole esigenti Giovanni Battista annunciava il giudizio imminente: “Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco” (Mt 3,10). Metteva in guardia soprattutto dall’ipocrisia di chi    si sentiva al sicuro per il solo fatto di appartenere al popolo eletto: davanti a Dio – diceva – nessuno ha titoli da vantare, ma deve portare “frutti degni di conversione” (Mt 3,8). Mentre prosegue il cammino dell’Avvento, mentre ci prepariamo a celebrare il Natale di Cristo, risuona nelle nostre comunità questo richiamo di Giovanni Battista alla conversione. E’ un invito pressante ad aprire il cuore e ad accogliere il Figlio di Dio che viene in mezzo a noi per rendere manifesto il giudizio divino. Il Padre – scrive l’evangelista Giovanni – non giudica nessuno, ma ha affidato al Figlio il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo (cfr. Gv 5,22.27). Ed è oggi, nel presente, che si gioca il nostro destino futuro; è con il concreto comportamento che teniamo in questa vita che decidiamo della nostra sorte eterna. Al tramonto dei nostri giorni sulla terra, al momento della morte, saremo valutati in base alla nostra somiglianza o meno con il Bambino che sta per nascere nella povera grotta di Betlemme, poiché è Lui il criterio di misura che Dio ha dato all’umanità. Il Padre celeste, che nella nascita del suo Unigenito Figlio ci ha manifestato il suo amore misericordioso, ci chiama a seguirne le orme facendo, come Lui, delle nostre esistenze un dono di amore. E i frutti dell’amore sono quei “degni frutti di conversione” a cui fa riferimento san Giovanni Battista, mentre con parole sferzanti si rivolge ai farisei e ai sad-ducei accorsi, tra la folla, al suo bat-tesimo. Mediante il Vangelo, Giovanni Battista continua a parlare attraverso i secoli, ad ogni generazione. Le sue chiare e dure parole risultano quanto mai salutari per noi, uomini e le donne del nostro tempo, in cui anche il modo di vivere e percepire il Natale risente purtroppo, assai spesso, di una mentalità materialistica. La “voce” del grande profeta ci chiede di preparare la via al Signore che viene, nei deserti di oggi, deserti esteriori ed interiori, assetati dell’acqua viva che è Cristo. Ci guidi la Vergine Maria ad una vera conversione del cuore, perché possiamo compiere le scelte necessarie per sintonizzare le nostre mentalità con il Vangelo. (Benedetto XVI, Angelus, 9 dicembre 2007)

INIZIA L’AVVENTO

 tempo di luce e attesa

 “Vegliate in ogni momento pregando…” (Lc 21,36)

Con questa forte esortazione del Vangelo entriamo nel tempo di Avvento: un cammino di quattro settimane in cui la Chiesa ci invita a risvegliare il cuore e ad aprirci alla venuta del Signore. Gesù ci chiede vigilanza, non per vivere nell’ansia, ma per riconoscere la sua presenza che continuamente viene a visitarci. Vigilare significa avere occhi attenti ai segni del bene, al bisogno dei fratelli e ai piccoli germogli di speranza che Dio fa nascere nel quotidiano. L’Avvento è anche tempo di preghiera, perché solo nella relazione con il Signore impariamo a leggere la storia con fiducia. Pregare ci rende saldi, capaci di affrontare ogni stagione della vita e di rimanere orientati verso la meta: l’incontro con Cristo, che entra nel nostro cammino e un giorno ci accoglierà nella pienezza della gioia che Egli dona.  In questo tempo santo siamo chiamati a rinnovare l’attesa:

– attesa del Natale, memoria viva dell’incarnazione del Figlio di Dio;

– attesa della venuta finale di Cristo, quando Egli condurrà tutto al suo compimento;

– attesa della venuta quotidiana del Signore, nelle persone, negli eventi e nei segni della Sua misericordia.

Lasciamo che la luce, già presente nell’attesa, accenda in noi il desiderio di incontrare il Figlio dell’uomo che viene a salvarci.

Buon cammino di Avvento!

Il “carisma” della Parrocchia del Duomo

Il 24 ottobre scorso alle ore 18.00 nella Pieve di S. Maria di castello si sono incontrati gli operatori pastorali della collaborazione pastorale che comprende le parrocchie del centro di Udine (B.V. delle Grazie, S. Quirino e SS. Redentore, S. Giorgio, S. Maria Annunziata) per una veglia di preghiera all’inizio dell’anno pastorale 2025-26.

Celebrare l’inizio del nuovo anno pastorale in Santa Maria di Castello ha ricondotto noi tutti alla “radice” comune più che millenaria, alla Pieve madre, la prima in cui si espressero la fede e la preghiera dei credenti che si andavano stabilendo in questi luoghi.

Potremmo ripercorrerne i passi nelle stesse pietre, contemplare il mistero divino qui espresso nell’arte, riconoscere – con grata meraviglia – come gli eventi della storia e i cataclismi della natura non ci abbiano privati del tesoro prezioso che qui si esprime: la tenace fede dei padri che si è propagata nei secoli fino a raggiungerci, linfa che scorre e continua a vivificare l’esistenza e lo spirito dei “molti”.

All’antica Pieve sul colle fu dato il nome di “Sancta Maria Minor”: fu affidata alle cure di una Confraternita di laici che la custodirono con sollecitudine, in una bella collaborazione con i pastori che sembra precorrere – ante litteram – e avvalorare parte di quanto sarà espresso dal Concilio Vaticano II, molti secoli dopo (AA).

La nostra comunità del Duomo deve riscoprire queste buone radici, vivere il presente con la tenacia di ricordare e custodire la memoria, mentre si riconosce luogo vivo in cui esprimere ancora il senso della “domus” come casa accogliente, nello spirito esemplare della maternità di Maria.

Ogni parrocchia ha manifestato il suo carisma: Chi vive con maggiore intensità le opere di carità, chi cura maggiormente la liturgia ed in particolare la preghiera nella Adorazione dell’Eucaristia, chi promuove la gli incontri di lectio divina e propone la riflessione previa della Parola di Dio che si legge alla domenica. La nostra Parrocchia vive nella Cattedrale ed è arricchita dal compito di “accogliere” le numerose persone che giungono per motivi diversi, religiosi o artistici o turistici e richiedono un servizio multiforme cui si provvede anche con il gruppo degli “Amici della cattedrale”.

È sede del vescovo che è segno di comunione e di unità per la chiesa friulana e pronuncia il suo insegnamento per la Diocesi intera, dalla quale affluiscono fedeli e comunità in varie occasioni per celebrazioni liturgiche o per incontri di preghiera. La parrocchia sostiene due scuole di “canto liturgico” per le celebrazioni solenni: La Cappella Musicale e l’Associazione Pueri e Juvenes cantores. In Duomo si svolgono eventi culturali significativi a cui partecipano musicisti, studiosi e appassionati delle arti.

Vive in mezzo a noi anche la comunità delle persone non udenti per le quali si celebra la S. Messa ogni mese e svolge attività catechistico-culturale aiutata anche da persone udenti. 

Diverse famiglie di ogni età partecipano alle liturgie domenicali e anche i bambini che frequentano il catechismo trovano una loro collocazione all’interno delle celebrazioni, animano e suggeriscono il futuro. La terza domenica del mese è dedicata alla raccolta dei generi alimentari per le persone bisognose e la Messa è celebrata in particolare con le famiglie. Ogni giorno un sacerdote del capitolo metropolitano è disponibile per l’ascolto delle persone e per la celebrazione del sacramento della Riconciliazione.

I fedeli affluiscono da vari luoghi, anche da Paesi del mondo molto lontani, per devozione, trasferimenti, migrazioni: anche il turismo ne favorisce la presenza.

I battenti del grande portale spalancato per il Giubileo che stiamo vivendo esprimono bene l’abbraccio ideale che la comunità del Duomo è chiamata a realizzare, scoprendo che il suo carisma di elezione è l’accoglienza: perché la “dimora di Dio con gli uomini” di oggi sia non solo “casa di preghiera”, ma anche casa familiare per tutti.

(Francesca e Giuseppe Berton)

CHE BELLA CERIMONIA!

È questo che noi sacerdoti ci sentiamo dire dopo la celebrazione della Messa di Prima Comunione con i piccoli o della Cresima con i giovani o con gli sposi dopo il matrimonio. Ma la liturgia è una cerimonia? Un piccolo spettacolo che deve emozionare? E per giunta si ripete sempre allo stesso modo come l’Eucaristia ogni domenica e perciò può diventare anche noiosa!?

Carissimi, è martedì sera. Ho appena incontrato i cresimandi che oggi alle 19.00 riceveranno la Cresima, i catechisti che li hanno accompagnati in questi due anni, i genitori ed i padrini. E’ una gioia non solo per la famiglia e per la parrocchia ma  per tutta la chiesa poter accogliere questo dono. Questi giovani sono chiamati a dare testimonianza della fede con la vita. Certamente. Ma questo viene in seconda battuta. Alla radice sta un dono da parte di Dio, che avviene tramite un Rito. Cos’è un Rito? Lo comprendiamo celebrandolo con gesti, segni e parole. Non è una cerimonia. Il protagonista principale è Cristo. È Lui che lo compie, tramite il suo ministro che ordinariamente nella Cresima è il Vescovo, il quale ungendo col crisma la fronte di ognuno dei cresimandi, dice:

“Ricevi il sigillo delle Spirito Santo che ti è dato in dono”.

Il rito ha il potere di mettere in contatto con Dio, introduce nel mistero, dona la possibilità di fare esperienza di Dio, è incontrare Dio stesso. Il rito agisce su questi giovani, dona la grazia di Dio, tramite il segno delle mani che il Vescovo ed i sacerdoti presenti stendono su di loro invocando lo Spirito. È una collaborazione misteriosa e meravigliosa.

Da questo dono dello Spirito, solo come conseguenza, nasce poi la testimonianza, come risposta libera all’amore di Dio. Più si abita il rito, più si sta nel rito, più ci si coinvolge nel rito e più la nostra testimonianza diventa generosa nella vita perché si viene abitati da Dio, che dona la forza di Gesù, il quale ha offerto gratuitamente la sua vita per noi e ci conforma a sé fin dal giorno del nostro Battesimo.

Allora comprendiamo come siano importanti i sacramenti per la vita cristiana e perché sempre ci ricol-leghiamo al Battesimo, dove abbiamo ricevuto una vita nuova, quella di Cristo. Questi giovani accolgono lo Spirito che rafforza la vita nuova di figli di Dio e aiuta a crescere nella medesima mentre vengono unti con il crisma, olio profumato misto a balsamo.

Cristo, Messia, Unto del Signore ha la triplice missione di essere: Profeta, sacerdote e pastore.  Conformati a Cristo noi siamo chiamati alla stessa missione: essere profeti nel senso che interpretiamo quello che avviene alla luce della Parola di Dio e la diffondiamo vivendola; sacerdoti perché offriamo a Dio il culto dovuto compresa la nostra vita; pastori perché amiamo il nostro prossimo come lui ci ha amati. Questa, in sintesi è stata la catechesi che ho tenuto ai cresimandi, ai loro genitori e ai padrini. Credo che per noi tutti, queste celebrazioni siano stimolo per riflettere con gratitudine sui doni che Dio ci ha elargito e per darne lieta testimonianza come risposta ad un amore gratuito che ci ha raggiunti nella nostra vita. Cordialmente. Don Luciano, parroco

“SUL MONDO SPLENDE IL SOLE OLTRE LE NUBI”

ESSERE CRISTIANI OGGI: UNA FEDE CHE  TRASFORMA LA VITA

Un cristiano si contraddistingue principalmente per la fede in Gesù Cristo, l’impegno a vivere secondo il suo insegnamento e la presenza di un amore altruistico e concreto verso il prossimo.

Per comprendere meglio cosa significhi essere cristiani e come questa identità si traduca nella vita di ogni giorno, possiamo considerare alcuni aspetti fondamentali della fede e della testimonianza.

Identità e fede

La caratteristica fondante di un cristiano è la relazione personale con Cristo: non si tratta semplicemente di aderire ad alcune regole o di partecipare a riti religiosi, ma di avere una fede viva in Gesù risorto, riconoscendolo come Figlio di Dio e Salvatore personale.

Questa fede produce una trasformazione della vita, che si manifesta in scelte, pensieri e atteggiamenti rinnovati.

Espressione quotidiana

Un cristiano autentico cerca di armonizzare la propria vita con la Parola di Dio e la volontà divina: esprime giustizia, pazienza, umiltà, onestà e

altruismo in ogni ambito, sia nella famiglia sia nella società. Il cristiano si distingue per la capacità di perdonare, aiutare chi è in difficoltà, essere sincero e servire senza secondi fini. I suoi atti sono guidati dall’amore e dalla ricerca del bene altrui. 

Dimensione interiore e testimonianza

La differenza tra il semplice credente e il vero cristiano sta nell’incontro reale con Cristo, che diventa il centro e la guida della vita. Testimoniare la propria fede, cioè vivere e agire in modo coerente con il Vangelo, rappresenta una caratteristica essenziale. Non basta, infatti, conoscere o praticare esteriormente la religione: ciò che distingue il cristiano è la fedeltà interiore e la disponibilità a lasciarsi cambiare da Dio.

Libertà e autonomia spirituale

Un cristiano non si lascia condizionare dalle mode o dallo “spirito del tempo”, ma vive secondo i principi del Vangelo, anche se questi sono controcorrente rispetto alla mentalità diffusa.

La libertà dalle inclinazioni egoistiche e dalla ricerca del consenso sociale è segno distintivo della maturità cristiana. 

Sintesi

• Fede in Gesù Cristo come Signore e Salvatore.

• Vita rinnovata e coerente con il Vangelo.

• Amore altruistico verso il prossimo e capacità di perdonare.

• Libertà interiore, indipendenza dal giudizio del mondo.

• Testimonianza concreta della propria fede con le opere

Conclusione

Essere cristiani non è una condizione acquisita una volta per tutte, ma un cammino quotidiano di fede, conversione e amore. In un mondo che spesso esalta l’apparenza, il successo e l’individualismo, il vero discepolo di Cristo sceglie la via della semplicità e del dono di sé.

Il cristiano autentico non cerca di distinguersi con le parole, ma con la coerenza e la luce delle proprie azioni.

Ogni gesto di perdono, ogni atto di servizio, ogni scelta guidata dall’amore diventa allora una piccola testimonianza del Vangelo vivente. Solo così la fede smette di essere un’idea astratta e si fa vita che illumina e rinnova il mondo. 

A conclusione di questo cammino di riflessione, lasciamo che risuoni nel cuore l’invito di Gesù, che illumina il senso profondo dell’essere cristiani:

“Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte.”  (Matteo 5,14)

 (Sebastiano Ribaudo)

SUL MONDO SPLENDE IL SOLE OLTRE LE NUBI

“AMA E FA’ CIÒ CHE VUOI”

(Sant’Agostino, Omelia su 1 Giovanni 7,8)

Tra le molte frasi che la tradizione cristiana ci ha consegnato, poche possiedono la forza e la profondità di questo celebre passo di Sant’Agostino: “Ama e fa’ ciò che vuoi”. Apparentemente semplice, quasi provocatorio, esso racchiude una concezione dell’etica e della libertà che, a distanza di secoli, continua a parlare con sorprendente attualità. Dietro l’apparente paradosso si cela una visione dell’uomo e del suo rapporto con Dio fondata sull’amore come principio ordinatore dell’esistenza. Per comprendere appieno la portata di queste parole, è utile soffermarsi su quattro aspetti fondamentali del pensiero agostiniano. 

L’importanza dell’amore 

Per Agostino, l’amore – inteso come caritas – non è un’emozione passeggera, ma un principio etico e teologico che orienta l’intera vita morale. Amare Dio significa aderire a Lui con tutto il proprio essere e, di conseguenza, amare il prossimo in modo autentico e disinteressato. Chi ama Dio sopra ogni cosa desidera spontaneamente ciò che è giusto e buono, poiché ogni suo atto nasce dal desiderio di compiere la Sua volontà. L’amore, dunque, diventa la radice e la misura di ogni comportamento morale. 

La libertà come conseguenza 

La seconda parte della frase, “fa’ ciò che vuoi”, non è un invito al capriccio o all’anarchia morale, ma la naturale conseguenza dell’amore autentico. Quando il cuore è guidato dall’amore di Dio, le azioni che ne derivano non possono che essere rette. Non serve un elenco di comandamenti imposto dall’esterno, perché è la voce interiore dell’amore a indicare la via corretta.

In questo senso, la libertà non coincide con l’assenza di regole, ma con un’autentica adesione interiore al bene. È la libertà di chi ama, e proprio per questo non può che agire in modo giusto.

Il legame tra etica e religione

Questa visione illumina il nesso profondo tra etica e religione nel pensiero agostiniano. L’etica non è un insieme di norme rigide, ma il frutto di una relazione viva con il divino. La virtù non nasce da un’obbedienza meccanica, ma da un cuore trasformato dall’amore. In questa prospettiva, l’agire morale non si fonda sulla paura della punizione o sul calcolo del merito, ma sull’intima comunione con Dio, che è la fonte stessa del bene.

Agire per amore, non per timore

Anche fuori da un contesto strettamente teologico, le parole di Agostino custodiscono un messaggio universale. Ci ricordano che le azioni più autentiche nascono da motivazioni profonde e positive -dall’amore, dalla compassione, dal desiderio del bene – piuttosto che dall’obbedienza cieca o dal timore delle conseguenze. È un invito a guardarci dentro e a chiederci: perché facciamo ciò che facciamo? Agiamo per convenzione, per dovere, o per sincero amore verso ciò che è giusto? L’attualità di questo insegnamento è sorprendente. In un tempo in cui la libertà è spesso confusa con l’individualismo e l’etica con la paura del giudizio, Sant’Agostino ci ricorda che la vera libertà nasce solo dall’amore. Solo chi ama davvero può dire, con piena verità: fa’ ciò che vuoi. Che l’amore – principio e fine di ogni cosa – possa orientare le nostre scelte quotidiane, non solo nei momenti di riflessione, ma nella dimensione profonda delle nostre relazioni e decisioni. Buona settimana a ciascuno di voi!

(Sebastiano Ribaudo)