“Da cuore a cuore”

“Grande non è colui che comanda, ma colui che serve con amore.”

Sant’Agostino, In Iohannis Evangelium tractatus, 58, 2 “Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano”

Le parole di Sant’Agostino e riprese da papa Leone, che nel suo primo discorso da successore di Pietro ha voluto citare il santo di Ippona per delineare il senso più profondo del ministero episcopale: essere nella Chiesa ‘servi inutili’. Agostino distingue il “per voi” dal “con voi”: nel primo c’è l’ufficio, nel secondo la condizione comune a ogni battezzato. L’episcopato è dunque un servizio, è potere nella misura in cui è consegnato al bene dell’altro. Questo è un concetto importante che riguarda anche noi, popolo d Dio, che nella vita di tutti i giorni vediamo, siamo abituati a riconoscere il potere a partire da segni diversi: il possesso, il comando, l’autonomia dal vincolo, questa logica del servizio sembra non solo estranea, ma addirittura controproducente. Eppure, è la logica del Vangelo: lo ha detto Cristo in un forte momento di rivelazione: “Chi vuole essere grande tra voi, sarà vostro servitore” (Mc 10,43). La grandezza evangelica non si misura con il metro del dominio, ma con quello della dedizione. Sant’Agostino fu vescovo per trentacinque anni, nella turbolenta città di Ippona, nell’Africa romana assediata dai vandali e sfinita dalle eresie. Eppure, in mezzo a tanta instabilità, fu caposaldo per la sua comunità proprio attraverso il suo laborioso servizio, di cui oggi ancora godiamo nella forma dell’enorme opera di scritti fino a noi tramandati. Si immerse nelle esigenze della sua diocesi: rispondeva personalmente alle lettere dei fedeli, amministrava i beni della Chiesa con rigore, difendeva i poveri di fronte ai soprusi dei potenti. Era a turno giudice, maestro e pastore. E nello stesso momento combatteva in sé stesso la tentazione dell’orgoglio, che sempre minaccia chi ha una carica. Scrive infatti: “Non ci si deve gloriar del fatto di presiedere, ma del servire. […] È una carica, non un onore” (Sermo 340A). Le sue parole, così come il suo personale esempio, oggi come allora interpella ogni uomo: il potere che ci è affidato – anche quello piccolo, familiare, culturale, amministrativo – è giusto solo se è vissuto come servizio.

Il beato Bertrando

Il 6 giugno si celebrava la memoria del Beato Bertrando di San Genesio, un altro esempio di vita spesa nella logica del servizio. Fu patriarca di Aquileia dal 1334 al 1350; nato in Francia, a Saint-Geniès, nel 1260 (?), proveniva da una famiglia nobile e ricevette una raffinata formazione giuridica a Tolosa. La sua successione di incarichi fu rapida: fu chiamato dal papa a Roma, poi inviato come vescovo a Embrun e infine nominato patriarca. Aveva tutte le qualità del grande amministratore: intelligenza giuridica, senso pratico, capacità strategica. Ma aveva soprattutto un cuore aperto al Vangelo. Giunto in Friuli, trovò un territorio frantumato, segnato da lotte tra nobili, saccheggi, vendette incrociate. La Chiesa stessa era spesso implicata nei giochi di potere. Bertrando, con lucidità e decisione, iniziò una profonda opera di riforma: promosse la moralità del clero, ridusse i privilegi corrotti, restaurò la disciplina. Fu anche un uomo d’armi, com’era normale al tempo: costruì fortificazioni, organizzò difese contro le incursioni esterne con l’intento di proteggere la popolazione e l’integrità del Patriarcato. E allo stesso tempo, fu un instancabile promotore di opere di carità: fondò nel 1347 l’Ospedale di Santa Maria della Misericordia, che sarebbe diventato il cuore della cura medica a Udine per secoli. In lui vivevano insieme la fermezza del legislatore e la tenerezza del pastore.

Un’eredità ancora viva

Il brusco termine del suo ministero avvenne il 6 giugno 1350. Quel giorno, Bertrando si stava recando a San Giorgio della Richinvelda, con lo scopo di mediare una pace tra famiglie nobili in guerra. Consapevole del pericolo e cosciente che i suoi tentativi di mettere ordine nel disordine del potere locale gli avevano creato nemici potenti, non si tirò indietro dal tentare di raggiungere la pace. Fu infine assassinato in un agguato, colpito a morte mentre cercava di porre fine a una faida. La sua morte fu, agli occhi del popolo friulano, il martirio di un giusto. E tale è stato riconosciuto dalla Chiesa, che ne ha proclamato il culto fin dai secoli successivi, fino alla beatificazione ufficiale avvenuta sotto Clemente XIII nel 1760. La sua tomba è nella cattedrale di Udine, che da secoli è luogo di sua rinnovata preghiera e memoria. Ogni anno, il 6 giugno, la città lo ricorda con solennità, celebrando la sua figura come modello di vescovo, politico e uomo santo. Tutt’oggi servirebbe da esempio agli ‘operatori di pace’, a cui insegnerebbe cosa significa davvero battersi per la pace. Il beato Bertrando, con la sua unione tra sapienza giuridica e zelo pastorale, tra capacità politica e umiltà spirituale, è oggi più che mai attuale. Il suo esempio può parlare ai laici impegnati nella società, ai pastori della Chiesa, ai giovani in ricerca. Il beato Bertrando ha vissuto per edificare la città di Dio nel cuore della terra friulana. Possiamo augurarci che, come l’arrivo di questo patriarca sia stato provvidenziale alla nostra comunità, anche il nostro tempo regali al mondo moderno dei governanti. 

Francesco Palazzolo

“Cammina, uomo, e camminando ama; perché amando corri, e corri per amare. Qui è la fatica, là è il riposo, ma cammina senza pigrizia, perché non si raffreddi il tuo amore.”

(Sant’Agostino, Sermo 169, 18)

Domenica scorsa si è tenuto il pellegrinaggio al Santuario di Sant’Antonio. Il cammino votivo ricorda a tutti che, poiché la vita in sé non ammette stasi, a maggior ragione la vita cristiana è un progressivo avanzare nella fede. Sant’Agostino nel Sermo 169 invita ogni credente a non fermarsi mai nel suo cammino spirituale. Dice che l’uomo è fatto per tendere a qualcosa più grande di lui. Questa tensione è già scritta dentro di noi: siamo pellegrini, non residenti; viandanti, non padroni. Ma il tempo passa, e passando ci impone il movimento; qualche volta subiamo gli eventi, ci facciamo trascinare sperando che sia proprio il mutamento delle cose a risolvere certi problemi. Don Luciano ci ricorda un suo colloquio: “È inutile che tu cerchi il senso della vita solo camminando. Sarai deluso. Resterai sempre in compagnia dei tuoi limiti, perché li porti con te. Il senso della vita sta fuori di te, non è nell’orizzonte terreno, eppure lo si vive qui sulla terra” (Buenas Tardes, p. 89). Sant’Agostino andava avanti dicendo: “Chi corre bene non guarda dove mette i piedi, ma dove sta la meta” (Sermo 256, 5). Dove si va? Come ci si arriva? Ma verso dove si cammina? Per noi cristiani la risposta non è difficile; il problema, semmai, è che rispondere è la parte più semplice. In una predica sul Salmo 84, il vescovo d’Ippona afferma che l’uomo felice è colui che porta dentro di sé il desiderio di salire, di ascendere, non di restare fermo. Il cristiano deve mettere in conto le salite, le fatiche, gli sforzi, perché il cammino che conta non è quello orizzontale, ma quello verticale: si sale verso Dio, si cresce nella carità, si avanza nella fede. E la locomotiva? Noi con le nostre forze possiamo fare ben poco. Nella riflessione agostiniana ciò che ci muove è l’amore. Non basta quindi il camminare, non si arriverà molto lontano: bisogna sapere da cosa si è mossi e verso cosa ci si dirige.

Tutto l’uomo è mosso da ciò che ama

Agostino spiega che tutto l’uomo è mosso da ciò che ama.

Se ami il denaro, ti muoverai verso di esso; se ami l’onore, andrai in quella direzione; se ami Dio, il tuo cammino sarà verso di Lui. La direzione del nostro cammino è tracciata non tanto dai nostri pensieri o progetti, ma dai nostri affetti più profondi. Ecco perché, nel Sermo 169, Agostino non si limita a dire “cammina”, ma insiste: cammina amando, corri per amare, un circolo virtuoso che alimenta l’intensità interiore. Un pericolo serio, ci ricorda Agostino, è quello di smettere di camminare. Non perché ci opponiamo attivamente a Dio, ma perché ci raffreddiamo, ci adagiamo, diventiamo tiepidi. L’accidia – questa tristezza spirituale che ci fa perdere gusto per le cose di Dio – è uno dei nemici più subdoli. Non ci ferma subito: ci rallenta, ci appesantisce, ci fa sedere ai bordi della strada. Agostino ci ammonisce: attenzione a non scivolare dal riposo all’arresto definitivo. Così come il pellegrinaggio di domenica scorsa è stato un evento comunitario, ci conforta sapere che cammino cristiano non è mai solo individuale. Agostino ha una profonda visione ecclesiale: siamo tutti membra di un solo corpo, e camminiamo insieme. Non si cresce da soli, non si arriva a Dio da isolati. La Chiesa è il popolo in cammino, è la carovana dei pellegrini che avanzano sostenendosi a vicenda. Quando uno cade, l’altro lo rialza e se uno si smarrisce, l’altro lo richiama. Per Agostino, la vita cristiana è una continua ascesa, una lotta contro la legge del minimo sforzo. Non basta dire “sto bene così”, non basta mantenere una abitudine religiosa o evitare i grandi peccati. Bisogna crescere, avanzare, salire, perché chi smette di salire smette anche di vivere. In questo, Agostino è maestro di realismo spirituale: ci invita a guardare in faccia la nostra condizione, a riconoscere la necessità del progresso, a non illuderci di poter restare fermi.

Petrarca e l’ascesa al Monte Ventoso

Se vogliamo trovare nella letteratura una eco quasi perfetto della visione agostiniana del cammino, non possiamo non guardare a Francesco Petrarca e alla sua celebre lettera Ascesa al Monte Ventoso (Epistolae familiares IV,1), scritta nel 1336 e indirizzata a Dionigi di Borgo San Sepolcro. Petrarca racconta un’esperienza reale: la scalata, insieme al fratello, del monte Ventoso, in Provenza. Ma subito chiarisce al lettore che questa scalata è una metafora della sua vita interiore. Giunto in cima, contempla il panorama e, preso dall’ispirazione, apre a caso il libro delle Confessioni di Agostino, trovando un passo che gli parla direttamente: “E gli uomini vanno a contemplare le cime dei monti, le grandi onde del mare, il vasto corso dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso delle stelle, e trascurano se stessi.” (Confessiones, X, 8) Questo momento è per Petrarca uno spartiacque: si accorge che, fino a quel momento, ha guardato più fuori di sé che dentro di sé; ha cercato la bellezza, la gloria, l’elevazione, ma non ha ancora compiuto il cammino più difficile, quello dell’anima. L’ascesa al Monte Ventoso diventa quindi figura dell’ascesa spirituale. La fatica fisica, i sentieri tortuosi, i momenti di scoraggiamento, i ripensamenti lungo la strada, tutto questo è immagine della sua vita interiore. Lui stesso racconta che, più volte durante la scalata, aveva scelto il sentiero più facile e largo, salvo poi accorgersi che lo portava fuori strada. Questo dettaglio, apparentemente banale, è una allegoria morale: chi cerca la via più comoda finisce per allontanarsi dalla meta. Il paragone con Agostino non è casuale. Petrarca legge Agostino non solo come un padre della Chiesa, ma come un maestro di vita, un compagno di cammino. Le Confessioni diventano per lui lo specchio in cui guardarsi, vi si appoggia per leggere la propria esperienza. Ecco perché la scalata fisica culmina in un momento di introspezione: Petrarca comprende che la vera altezza non è quella dei monti, ma quella del cuore elevato a Dio. Scrive, infatti, alla fine della lettera: “Allora, pieno di stupore, mi fermai. Chiusi il libro, sdegnoso ormai delle cose terrene, e mi rivolsi a me stesso. Da quel giorno in poi, nessuno mi sentì più parlare di montagne.” Non è che Petrarca faccia una battuta, o rinneghi la bellezza della natura; capisce che Le tante montagne che aveva sognato di scalare, le tante ambizioni della vita, viste come cime da doppiare, ora contano poco. Come per Agostino, il cuore inquieto non trova pace nell’altezza del mondo, ma solo nell’altezza di Dio.  

Francesco Palazzolo

La Collaborazione Pastorale Udine-centro, all’inizio della quaresima ha celebrato il Giubileo delle famiglie (bambini e genitori) nel santuario della B.V. delle Grazie e prima della Settimana Santa con un numeroso gruppo di parrocchiani e gli operatori pastorali in cattedrale.

Domenica 25 maggio, nel pomeriggio, una cinquantina di persone, tra le quali anche alcune sorde, ha vissuto il terzo momento giubilare effettuando il pellegrinaggio a piedi da Artegna, attraverso la campagna, fino al Santuario di S. Antonio di Gemona, dove i pellegrini sono stati cordialmente accolti dai Frati minori conventuali che ringraziamo e tutti hanno potuto partecipare alla celebrazione della S. Messa presieduta da don Federico Grosso e concelebrata dal sottoscritto.

Inoltre, è per noi doveroso ringraziare la Questura di Udine che ha provveduto a fornire una splendida assistenza ai pellegrini attraverso la Polizia Locale ed i Carabinieri di Gemona. Giunga a loro il nostro plauso ed il nostro cordiale grazie per il servizio puntuale molto gradito.

Non possiamo dimenticare “l’esperto del luogo” ing. Toni Uère che ci ha condotti per il giusto cammino per non perderci nei sentieri del gemonese!

Per tutti è stata una bella esperienza di preghiera che abbiamo vissuto insieme anche con alcuni bambini coraggiosi.

Don Luciano.

“DA CUORE A CUORE”

“La forza dell’abitudine mi trascinava con sé, e mi diceva: ‘Pensi forse di potermi abbandonare?’”

(Sant’Agostino, Confessioni, VIII, 5, 10)

Nella vicenda umana della conversione di sant’Agostino si cela un dramma interiore di straordinaria intensità, una lotta minuziosamente descritta. Come ha ricordato Papa Giovanni Paolo I nella sua Udienza Generale del 13 settembre 1978, Agostino stesso racconta il suo cammino di fede come un viaggio tormentato, quasi un convulso agitarsi dell’anima: “Di qua, Dio che lo chiama e insiste, e di là le antiche abitudini, “vecchie amiche – scrive lui – e mi tiravano dolcemente per il mio vestito di carne e mi dicevano: ‘Agostino, come?!, tu ci abbandoni? Guarda che tu non potrai più far questo, non potrai più far quell’altro e per sempre!’”. Questo contrasto tra l’affermarsi della vocazione e il peso dell’abitudine è emblematico di quell’“abitudo” che troppo tardi si riconosce dannosa, che imprigiona con la sua forza apparentemente lieve. Giovanni Paolo I prosegue con un’immagine familiare e semplice, ma di profonda efficacia pedagogica: “Mi trovavo – dice – nello stato di uno che è a letto, al mattino”. Gli dicono: ‘Fuori, Agostino, alzati!’. Lui invece, diceva: ‘Sì, ma più tardi, ancora un pochino!’. “Finalmente il Signore mi ha dato uno strattone, sono andato fuori”. Ecco, non bisogna dire: Sì, ma; sì, ma più tardi. Bisogna dire: Signore, sì! Subito! Questa è la fede. Rispondere con generosità al Signore. Ma chi è che dice questo sì? Chi è umile e si fida di Dio completamente!”.

Le catene invisibili

Nel mondo moderno abbiamo affinato le tecniche per spezzare le dipendenze fisiche, abbiamo nomi e trattamenti per ogni patologia del desiderio. Ma conosciamo meno le abitudini morali, quelle che non hanno sintomi esteriori. Viviamo dentro abitudini di pensiero, abitudini di giudizio, abitudini di pigrizia spirituale. Ci abituiamo a parlare male, a pensare il peggio, ad aspettarci poco dagli altri e da Dio. Queste predisposizioni sono dei paraocchi, o peggio, delle pesanti catene. Dickens, nel Canto di Natale, condensa: “Le catene dell’abitudine sono troppo leggere per essere sentite, finché non diventano troppo pesanti per essere spezzate.” Una verità che Agostino avrebbe sottoscritto parola per parola. Le abitudini iniziano come scelte volontarie, poi diventano automatismi e infine si fanno identità. Non si sa più distinguere ciò che si è scelto da ciò che si è semplicemente ereditato da se stessi. È il punto in cui il male non viene più percepito come tale, ma come inevitabile. Il risveglio dell’anima – Canto di Natale di Dickens Nel Canto di Natale di Charles Dickens, l’avaro Scrooge è un uomo prigioniero non del male, ma dell’abitudine al proprio egoismo. Tutta la sua vita si è costruita sull’accumulo, sul controllo, sull’efficienza arida. Talmente è trincerato in questo suo comportamento che non è bastata la vista di uno spirito, ne sono serviti quattro!

La sua conversione, come quella di Agostino, non è istantanea. È preparata da un processo e tra tutte le apparizioni, quella più incisiva non è Marley, il Passato o il Presente, ma il Futuro. Lo Spirito del futuro non parla, non tenta di convincerlo ma gli mostra come sarà l’avvenire. E in quella muta visione, Scrooge si vede defunto, dimenticato, deriso. Nessuno lo compiange. Gli oggetti della sua casa sono venduti per pochi spiccioli da domestici senza nome; è il volto più duro dell’indifferenza. E lì, in quel silenzio, l’uomo sente per la prima volta la voce della coscienza. Dickens scrive con precisione: “L’uomo a cui apparteneva quel letto non era stato amato in vita, e non sarebbe stato rimpianto in morte.” Scrooge trema. E per la prima volta chiede: “Sono queste le ombre di ciò che accadrà, o solo di ciò che può accadere?”, ci fa un pensierino! Sa che quel futuro è una possibilità e nasce in lui l’idea di poter evitare quell’esito. E grida, come Agostino: “Voglio essere diverso!” La grazia, nel linguaggio di Dickens, passa per l’immaginazione, ma il miracolo non è minore: l’uomo si sveglia nuovo.

Le manifestazioni concrete

Ciò che rende potente questa scena non è il cambiamento in sé, ma la conversione delle abitudini. Scrooge non diventa un santo astratto. Si alza al mattino e inizia a vivere diversamente. Inizia a fare ciò che non aveva mai fatto: ascolta, dona, si lascia toccare. La sua redenzione non è uno stato d’animo, ma una serie di nuovi gesti. L’abitudine al possesso viene rotta dall’abitudine alla generosità. Scrooge non è un uomo redento perché si sente meglio: lo è perché inizia ad agire in modo nuovo. Il vero miracolo è questo: che l’anima si lasci plasmare da nuove scelte, e che queste, ripetute, diventino nuove abitudini. Perché l’uomo non può vivere senza abitudini. Ma può scegliere quali coltivare. Ecco perché la redenzione cristiana è un cammino. Un’aggiunta quotidiana di bene. La tradizione monastica ha sempre saputo che la vera libertà non è fare ogni giorno qualcosa di diverso, ma imparare a fare ogni giorno lo stesso bene con fedeltà nuova. Agostino comprese che l’abitudine non si può lasciare se non con uno strappo. E che quello strappo, per non lacerare l’anima, ha bisogno di un’altra forza: la grazia di Dio. Non si tratta di sforzarsi di essere migliori. Si tratta di lasciarsi riplasmare da Colui che ha fatto nuove tutte le cose.  

Francesco Palazzolo

“Viviamo bene, e i tempi saranno buoni; noi siamo i tempi”

(Sant’Agostino, Discorso 311)

È una frase tratta dal Discorso 311 di sant’Agostino, uno degli autori che più profondamente hanno formato l’intelligenza e la spiritualità del nuovo vescovo di Roma. La citazione, usata nella udienza ai giornalisti lunedì scorso, non è stata un semplice omaggio colto, ma la manifestazione iniziale di una linea di pensiero che sarà verosimilmente centrale nel suo magistero. È stato provvidenziale l’aver qui dedicato, negli ultimi mesi, degli approfondimenti sul pensiero agostiniano. Essi sono stati, senza volerlo, una preparazione a meglio accogliere il pontificato nascente. Le parole di Agostino, già di per sé cariche di forza teologica e antropologica, assumono ora anche il valore di una sintonia con ciò che il nuovo papa si appresta a trasmettere con i suoi gesti e le sue scelte. Vale la pena dunque commentare questa massima antica quale anche strumento per entrare, con maggiore consapevolezza, nella visione cristiana del tempo e della responsabilità. Vivere bene, dice Agostino, non è uno sforzo privato o un affare interiore. È un modo di abitare il tempo, di attraversarlo lasciando in esso impronte di giustizia, di misericordia, di sapienza. E in questo senso, i tempi non sono entità autonome, quasi forze cieche della storia, ma specchi di ciò che gli uomini vi proiettano. La sfiducia che spesso circonda il nostro sguardo – verso la politica, la tecnologia, etc. – nasce da questa tentazione: credere che i tempi siano un destino e non una responsabilità.

Feynman e il rischio della conoscenza senza giudizio Un’applicazione particolarmente feconda della distinzione tra “vivere bene” e il mero “funzionare bene” si trova in un ambito che sembra, a prima vista, neutro rispetto alle valutazioni morali: la scienza. Eppure, proprio qui la riflessione è decisiva. Uno degli scienziati che meglio ha chiarito la posta in gioco è Richard Feynman, fisico teorico statunitense e premio Nobel per la fisica nel 1965. In più occasioni – a partire dalle sue lezioni universitarie (“Il Senso delle Cose”) fino ai suoi interventi pubblici dopo la guerra – Feynman ha insistito su una differenza spesso trascurata ma essenziale: quella tra scienza e tecnica. Per lui, scienza è un metodo di conoscenza. È fondata sull’osservazione sperimentale, sull’ipotesi verificabile, sulla ripetibilità. Essa mira alla comprensione delle leggi che regolano la natura, in una prospettiva aperta, autocritica, spesso provvisoria. La tecnica, al contrario, è l’applicazione della conoscenza scientifica per ottenere risultati pratici: costruire, modificare, intervenire. La distinzione non è solo formale. Per Feynman, ciò che la scienza può dire è “come funziona il mondo”; la tecnica risponde invece alla domanda: “come possiamo usare ciò che abbiamo capito”. Il problema, osservava, emerge quando si confondono questi due livelli: quando si crede che comprendere come fare qualcosa coincida con sapere se sia giusto farla. Feynman lavorò al Progetto Manhattan, partecipando allo sviluppo delle armi nucleari, e nel secondo dopoguerra riconobbe che la conoscenza acquisita non implicava, di per sé, alcuna direzione etica. La fisica nucleare aveva raggiunto un punto di maturità tale da permettere la fissione controllata, ma la scelta di utilizzare tale processo per fini militari fu di natura politica, non scientifica. Questo scarto tra conoscenza e responsabilità si è ampliato nel tempo. La tecnica, diventata autonoma rispetto alla scienza e persino rispetto all’etica, tende oggi a generare un’accelerazione che talvolta precede la possibilità di valutarne criticamente le implicazioni. Biotecnologie, intelligenza artificiale, neuroenhancement, manipolazione genetica: tutti ambiti in cui la domanda “possiamo farlo?” ha bisogno di essere affiancata – e talora arginata – dalla domanda più fondamentale: “è bene farlo?”. In questo contesto, la citazione agostiniana assume una portata epistemologica (cioè delle vie del conoscere): “Viviamo bene, e i tempi saranno buoni; noi siamo i tempi.” Il sapere, in sé, non genera tempi buoni. Può essere strumento di bene o di dominio, di progresso o di disumanizzazione. Sono gli uomini che ne dispongono a renderlo fruttuoso o distruttivo. In un sistema educativo, questa consapevolez-za implica che la formazione scientifica (specialmente ai livelli accademici) non può essere dissociata dalla formazione etica. Un curriculum che trasmetta solo la logica interna delle discipline, senza collocarle in un quadro di senso più ampio, rischia di generare competenze operative prive di orientamento. Feynman non era un pensatore morale in senso stretto. Ma la sua insistenza sul dubbio metodico, sulla trasparenza intellettuale e sul dovere di non auto-ingannarsi è, in effetti, un’etica implicita. La scienza diventa un luogo di verità solo quando è esercitata con integrità. L’uomo tecnico, diceva, rischia di ingannarsi più facilmente dell’uomo ignorante, perché dispone di strumenti più potenti per auto-confermare le proprie ipotesi. Per questo, la responsabilità dell’uomo formato scientificamente è maggiore: potere senza discernimento non rende i tempi buoni, li espone a squilibri più raffinati e meno visibili.

Non esistono “tempi buoni” senza uomini giusti Sant’Agostino, nella sua Città di Dio, osservava che ciò che distingue la città degli uomini da quella di Dio non sono i beni esteriori, ma l’amore che le muove. Dove l’amore è ordinato – verso Dio, verso l’altro, verso la verità – il tempo si fa propizio. Dove invece domina l’amor sui, il culto di sé, anche le condizioni migliori producono miseria. Ecco perché la frase del Papa, riprendendo Agostino, non è solo una citazione felice. È un manifesto. È un appello alla responsabilità personale, all’educazione profonda, alla maturazione interiore. È anche una correzione gentile al fatalismo del nostro tempo, alla tendenza a delegare al potere, alla tecnica, al futuro ciò che solo ciascuno può scegliere: vivere bene. In fondo, «noi siamo i tempi» significa anche questo: nessuna stagione della storia è perduta, se qualcuno decide di viverla con giustizia. E nessuna riforma della società sarà mai stabile, se non affonda nella riforma delle coscienze, delle abitudini. È da qui che si comincia, individualmente, si comprende perché, anche nei momenti più oscuri, la speranza cristiana non è evasione, ma radicamento. Perché essa si alimenta non dei segni dei tempi, ma della possibilità – sempre aperta – di vivere bene.                                                              

Francesco Palazzolo

Una nuova speranza

L’8 maggio 2025 il mondo ha conosciuto il nome del successore di Papa Francesco: il cardinale Robert Francis Prevost, che ha assunto il nome di Leone XIV. Originario di Chicago, primo statunitense a salire al soglio pontificio.

Membro dell’Ordine di Sant’Agostino, ha trascorso gran parte della sua vita in missione in Perù arrivando a ricoprire ruoli significativi: nominato vescovo nel 2014, diventa prefetto del Dicastero per i Vescovi nel 2023. La sua esperienza internazionale e la sua conoscenza delle realtà ecclesiali al di fuori della sua patria lo rendono una figura di riferimento per una Chiesa sempre più globale. Il nuovo pontefice ha aperto il suo primo discorso invocando la pace, l’unità e la solidarietà, sottolineando l’importanza di costruire ponti anziché muri ed esprimendo vicinanza ai poveri e agli emarginati: un richiamo potente alla fraternità e alla responsabilità in un tempo segnato da conflitti e da costanti incertezze. Il pontificato di Leone XIV suscita nei fedeli la speranza che ispiri una fede autentica e coerente che si impegni a guidare una Chiesa trasparente e vicina alle persone. Si apre una nuova stagione ricca di sfide e opportunità per la Chiesa assistita dallo Spirito Santo, con la speranza di un futuro migliore per l’umanità.                                                                                                  

Matteo Carota

“DA CUORE A CUORE”

«Tardi ti amai, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti amai»

(Confessiones X, 27, 38)

Dio è più intimo a noi di noi stessi

L’esperienza cristiana, quando è autentica, è sempre riconoscimento. Non si inventa, non si costruisce con le sole forze dell’intelletto o dell’affetto: si scopre. In questa tensione tra l’apparente iniziativa dell’uomo e la reale primazia di Dio, si iscrive l’intera vicenda di Agostino. La sua formula — “tardi ti amai” — non è solo biografica: è universale. Esprime con precisione il cammino dell’uomo moderno, la cui intelligenza è spesso inquieta, dispersa tra molte domande, ma che non trova pace finché non torna all’origine. Agostino ha messo a tema: Dio è più intimo a noi di noi stessi. “Interius intimo meo et superior summo meo” scrive: Egli è più dentro di ciò che io percepisco come mio, e al tempo stesso è al di sopra di ciò che io posso concepire come più alto. Questa duplice verità — l’interiorità assoluta e la trascendenza assoluta di Dio — impedisce ogni riduzione del mistero divino a pura proiezione psicologica, ma salva anche l’uomo dalla tentazione opposta: quella di pensare Dio come totalmente altro, disinteressato alla sua storia. Agostino mostra che Dio è contemporaneamente immanente e trascendente, e proprio questa compresenza fonda la possibilità della relazione personale. Nel suo itinerario intellettuale, Agostino ha percorso molte strade. Cercava Dio nella bellezza delle creature, nell’armonia dei numeri, nella sapienza dei filosofi, ma sempre come attraverso uno specchio. Solo quando ha capito che la verità non è un’idea, ma una Persona, allora ha trovato il sentiero soddisfacente. In questo passaggio dalla filosofia alla fede, si gioca una delle conquiste più alte del pensiero cristiano. Non si tratta di abbandonare la ragione, ma di purificarla. Agostino non ha mai disprezzato la filosofia; ha invece mostrato che la sua piena fioritura si dà solo nella carità, perché “nessuno entra nella verità se non attraverso l’amore”.

Salvezza nel pensiero Agostino

Il cuore dell’antropologia agostiniana è la consapevolezza che l’uomo è un essere ferito, e che questa ferita non può essere sanata da alcuna potenza umana. “La mia ferita era profonda, e nessuno poteva guarirla se non Colui che ha fatto me”. Il peccato non è solo una trasgressione morale, è una frattura Di sé stessi, una perdita di direzione. Agostino ha colto che l’uomo, se lasciato ai propri mezzi, si curva su di sé (“incurvatus in sé”) e perde ogni spazio di manovra, perde la libertà. È solo mediante la grazia che può rialzarsi, raddrizzarsi, e guardare di nuovo in alto. Per questo motivo, l’intero edificio della vita cristiana è fondato sulla grazia.

Resta da chiarire, che la grazia non distrugge la libertà. Essa la precede, la sostiene, la rende possibile. Agostino ha insistito con forza sulla priorità dell’azione divina, ma ha anche custodito la responsabilità dell’uomo. In un mondo (il suo come il nostro) che oscilla tra fatalismo e volontarismo, la sua visione mantiene l’equilibrio: Dio opera tutto, ma non senza di noi. L’iniziativa è di Dio, ma l’uomo è chiamato a rispondere. “Colui che ti ha creato senza di te, non ti salva senza di te”. Nel pensiero agostiniano la Chiesa occupa un posto centrale: “comunità spirituale e Corpo stesso di Cristo”. “Con voi sono cristiano, per voi sono vescovo”, scrive Agostino, sintetizzando l’identità del pastore. Per lui la Chiesa è madre e maestra, grembo e guida. Essa è sempre in cammino verso la purificazione, ma mai privata della presenza salvifica di Cristo. La sua autorità non deriva dagli uomini, ma dalla verità che essa custodisce.

Il tempo, luogo della rivelazione

Il tempo, infine, è una categoria centrale nella riflessione agostiniana. A differenza delle concezioni cicliche del mondo antico, Agostino ha compreso il tempo come dramma, come attesa, come storia della salvezza. Il tempo è il luogo in cui Dio agisce. E il cuore umano, inquieto finché non riposa in Dio, si muove dentro questo tempo come un viandante che cerca la patria. Il passato è memoria, il futuro è attesa, il presente invece chiede attenzione: è qui che Dio parla, qui che si gioca la salvezza. “Tardi ti amai”: ma anche se tardi, l’amore resta amore. Non importa l’ora dell’arrivo, ma la sincerità del cuore. Agostino non ha teorizzato una filosofia, ha indicato a modo suo la via di Cristo, “la bellezza tanto antica e tanto nuova”. La sua unicità sta nell’averlo fatto da uomo trasformato, da peccatore perdonato, da pellegrino incamminato. La via che ha indicato agli altri l’ha percorsa per primo, con lacrime, con fatiche, con domande e silenzi. Specialmente al suo tempo, molti cercavano la salvezza nelle dottrine, nei culti segreti, nelle illusioni dell’intelligenza autosufficiente. Ha parlato a uomini tribolati: confusi da troppe parole e da troppi idoli, lacerati da guerre, instabili nelle convinzioni, assetati di verità ma schiavi dei desideri. Eppure, li ha amati e guidati come pastore, li ha serviti come fratello. Le sue omelie, le sue lettere, le sue Confessioni sono pagine vive, nate nel fuoco di una conversione. E ciò che valeva per i suoi giorni, vale anche per i nostri. Le inquietudini del cuore non sono mutate, se non nei loro travestimenti. Anche oggi l’uomo cerca, e si smarrisce, anche oggi occorre una parola vissuta e abitata.

Francesco Palazzolo

Maggio è il mese tradizionalmente dedicato alla Madonna.

Siamo invitati a recitare il S. Rosario:

Ore 10.30: Chiesa di S. Giacomo (dopo la S. Messa)

Ore 18.30: Oratorio della Purità (prima della S. Messa)

Nelle nostre famiglie, ci possiamo unire a tante persone tramite Radio Maria o TV 2000.

Preghiamo per la pace nel mondo.

“DA CUORE A CUORE”

“Ci hai fatti per Te, e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in Te”

(Sant’Agostino, Confessiones, I,1)

Il cuore inquieto dell’uomo moderno

«Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te». Con queste parole, più che aprire le sue Confessiones, sant’Agostino apre un varco nel cuore dell’uomo di ogni tempo. La confessione dell’uomo antico diventa la diagnosi profetica dell’uomo moderno: inquieto, errante, saturo di parole e vuoto di senso. Non vi è frase che abbia riassunto con altrettanta potenza la condizione esistenziale dell’uomo: creato da Dio e per Dio, e perciò stesso incapace di pace finché non torna a Lui. La modernità, nella sua febbrile ricerca di autonomia, ha tentato ogni via per tacitare questa inquietudine: la scienza, il piacere, il potere, l’arte, la tecnica… Ma nulla ha potuto colmare quel vuoto che non è solo emotivo, ma ontologico. L’uomo, diceva Pascal, è un essere che «cerca con angoscia» (Pensées, n. 148): cerca qualcosa che non sa nominare, ma che conosce intimamente. Perciò, come ha scritto Eliot, “l’uomo moderno ha perso il senso non solo di Dio, ma anche del proprio io”. La coscienza si è come prosciugata. Eppure — lo si voglia o no — quell’inquietudine resta. È una voce sommessa che, seppur coperta da mille distrazioni, non tace mai del tutto. Sant’Agostino, in questo, è il testimone del cuore che cerca, della ragione che interroga, della volontà che si dibatte tra due amori. E che scopre, infine, che c’è un solo luogo in cui il cuore può trovare pace: non in un’idea, non in un’ideologia, ma in una Presenza.

La nostalgia dell’Eterno

Ciò che l’uomo percepisce come disagio — quell’insofferenza che lo accompagna anche nei momenti di apparente successo — è in realtà un segno di elezione. È la nostalgia di Dio. Una nostalgia che, se coltivata nella preghiera e nella lettura del cuore, diventa via alla conversione.

Agostino stesso racconta nelle Confessioni il travaglio della sua ricerca, che passa attraverso i piaceri, la filosofia, le amicizie, l’ambizione. “Ero diventato per me stesso un grande enigma” (Confessiones, IV, 4, 9). E proprio nel momento di massima confusione, quando ogni sapienza umana sembrava infrangersi sul mistero del male, avviene l’incontro con la Scrittura, grazie a sant’Ambrogio, e con essa la rinascita dell’anima. La teologia dell’inquietudine di Agostino si oppone frontalmente alla cultura dell’anestesia spirituale. Oggi si cerca di spegnere ogni voce interiore con la distrazione continua, essere interiormente sradicati permette di trapiantarci con facilità. Agostino invece ci insegna a non avere paura del nostro vuoto, a non rifuggire la solitudine. «Torna in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità» (De vera religione, XXXIX, 72). L’inquietudine è una condizione temporanea, il suo scopo è scuoterci. A seguire è ciò che Agostino chiama conversione: un movimento della volontà illuminata dalla grazia. “Mi tenevo in sospeso tra la volontà di andare avanti e quella di restare indietro” (Confessiones, VIII, 11, 25). È il momento dello strappo, del pianto sotto il fico, del “tolle, lege”— prendi e leggi, è l’adesione, l’incontro con Cristo. Come dirà san Tommaso d’Aquino: «La nostra pace è Cristo stesso» (Summa Theologiae, III, q. 22, a. 1). Anche oggi Agostino ci ricorda che l’uomo non si salva da solo. La beatitudine non è un prodotto, ma una relazione. «Ci hai fatti per Te, e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in Te». Non è solo un’affermazione teologica, è un grido umano, una confessione universale. L’uomo è un mendicante d’infinito, e solo l’Infinito fatto carne – “Cristo, il Dio vicino” – può colmarlo. Sant’Agostino, con la forza del convertito e la profondità del sapiente, ci invita a non temere l’inquietudine, ma a leggerla come un segno, un sacramento del desiderio, una via che porta a casa.

Bellezza tanto antica, tanto nuova

Agostino chiama Dio bellezza. E lo fa in un tempo in cui la bellezza era ancora il termine supremo della filosofia e dell’arte. Ma qui la bellezza non è ornamento né armonia: “è pienezza dell’essere, splendore della verità, irradiazione del bene” secondo quella triade platonica che il cristianesimo ha fatto propria nella descrizione del Creatore. Dio è antico, perché non soggetto al tempo. È prima di ogni storia, prima di ogni desiderio, prima di ogni parola. «Prima che Abramo fosse, Io Sono» (Gv 8,58): è questa l’antichità divina, non cronologica ma ontologica, l’anteriorità dell’eterno” di cui parlava Hans Urs von Balthasar. Ma Dio è anche nuovo. Non nel senso che cambi, ma nel senso che si rinnova. Ogni volta che l’uomo lo incontra, Dio è come se fosse la prima volta. «Le sue misericordie non sono finite: si rinnovano ogni mattina» (Lam 3,22-23). Agostino aveva camminato a lungo tra le filosofie, e aveva cercato Dio come concetto. Ma quando lo ha trovato come presenza, lo ha visto come bellezza. E quella bellezza lo ha vinto. «Mi chiamasti e gridasti, e squarciasti la mia sordità; balenasti, risplendesti e mettesti in fuga la mia cecità» (Confessiones X, 27, 38). Ogni autentica conversione nasce da un’estetica dell’incontro. Non si inizia ad amare Dio perché lo si capisce, ma perché lo si vede. E lo si vede non con gli occhi del corpo, ma con quelli del cuore.                                                                                                

Francesco Palazzolo

DOMENICA DELLA DIVINA MISERICORDIA

“DA CUORE A CUORE”

“Dio non ci lascia soli, cammina con noi!”

È una delle fasi che il Santo Padre pronunciava spesso, agli Angelus, alle udienze; una promessa che ci solleva dal peso della solitudine e ci invita a camminare con il Signore, che non ci lascia mai. Tuttavia, oggi, mentre ci raccogliamo nel ricordo di Papa Francesco, non possiamo fare a meno di sperare che, così come il Signore ci accompagna, anche il nostro amato Papa continui a camminare accanto a ciascuno di noi. Anche nei momenti di più grande difficoltà, ci ha insegnato che la speranza non viene meno, che il cammino della vita, per quanto impervio, è sempre illuminato dalla luce di Cristo. Ogni sua parola, ogni suo gesto, ci ha accompagnato in un cammino di fede che oggi, nel dolore della sua perdita terrena, non vogliamo interrompere. La sua esortazione più frequente, quella che ci ha rivolto con il cuore aperto, era di pregare per lui. Un invito che ora assume una profondità nuova, mentre noi continuiamo a camminare affidandoci al suo esempio di vita e al suo amore per il Signore. Di Papa Francesco ognuno conserva qualche ricordo particolare.

Brillare, ascoltare, non temere

Per quanto mi riguarda, resterà indimenticabile l’omelia pronunciata la mattina del 6 agosto 2023, a Lisbona per la GMG, quando il Papa di fronte a noi giovani (eravamo un milione e mezzo) ha commentato la Trasfigurazione e ci ha consegnato tre verbi: brillare, ascoltare, non temere. “Il suo volto brillò come il sole” (Mt 17,2): con questa frase il Papa introduce il primo verbo. Egli insiste sul fatto che noi, Chiesa, brilliamo soltanto quando riflettiamo una presenza che non ci appartiene. Nella “Evangelii gaudium” ha scritto che la Chiesa è un “poliedro” che riflette la luce in molte facce; a Lisbona ha ricordato che il poliedro esiste solo se una sorgente lo illumina. Il secondo verbo, ascoltare, nasce dalla parola del Padre sul Tabor: “Questi è il Figlio mio, ascoltatelo”. Papa Francesco collega subito il primato dell’ascolto di Dio all’ascolto dei fratelli. Durante il Sinodo sulla sinodalità ha ripetuto che la prima riforma non tocca organigrammi ma orecchie: “Abbiamo due orecchie e una sola bocca perché dobbiamo ascoltare il doppio di quanto parliamo”. Quando ha incontrato i popoli amazzonici o le famiglie di Lampedusa ci ha mostrato un metodo: guardare, ascoltare, discernere, agire. Senza il passo dell’ascolto il discernimento diventa calcolo. Il terzo verbo, non temere, conclude l’omelia e, in parte, definisce lo stile decisionale del Papa. Non ha temuto di andare a Bangui quando la guerra civile infuriava, non ha temuto di scontentare i mercati parlando di ambiente, non ha temuto di fare tante modifiche pur sapendo che facendo ciò si incontravano opposizioni e si pagava un prezzo di solitudine. In “Fratelli tutti” afferma che la paura dell’altro diventa brodo di coltura per populismi e violenze. Nel dialogo con i giovani di Manila ha ammesso: “Non abbiate paura di piangere, perché un cuore che piange può accogliere”. Tutta la sua biografia mostra come il coraggio non coincida con l’eroismo muscolare: si tratta, piuttosto, di fiducia perseverante che il Vangelo non delude.

Non abbiate paura

Papa Francesco a Lisbona ripete più e più volte: “no tengan miedo – non abbiate paura”. Questo invito, che risuona tanto forte quanto il messaggio della Trasfigurazione, è un’esortazione che va ben oltre le parole. La paura ha tante forme, e oggi è un tema cruciale per il mondo: la paura della guerra, la paura della povertà, la paura delle differenze, la paura persino del futuro. Ma Francesco non temeva, anzi, invitava tutti a superare queste paure, per costruire una società di pace, accoglienza e speranza. A Lisbona, come in molte altre occasioni, ci chiedeva di affrontare la vita con il coraggio di chi crede in un amore che è più forte di ogni paura, di ogni minaccia. Il coraggio che ha caratterizzato la sua vita è, ora più che mai, evidente anche nel modo in cui ha affrontato la malattia negli ultimi mesi. Papa Francesco ha scelto di non nascondere la sofferenza, ma di viverla in modo trasparente. In un periodo in cui molti temono la vulnerabilità e l’invecchiamento, ha scelto di non fuggire dalle sue difficoltà fisiche, ma di affrontarle con serenità. La sua presenza in pubblico, anche quando la sua salute peggiorava, non era un atto di resistenza eroica ma una continua risposta alla chiamata evangelica a non temere. In “La Luce della Fede” scriveva: “La vita non è una ricerca di comodità, ma una chiamata a vivere ogni giorno con il cuore aperto”. Nonostante le difficoltà legate all’età e alle sue condizioni di salute, il Papa non ha mai smesso di viaggiare, incontrare le persone, parlare al mondo, offrendo una testimonianza unica di coraggio e speranza. La sua condizione di salute, infatti, è diventata simbolo di un’umanità che non teme la debolezza, ma la accoglie come parte integrante della sua forza interiore. Così, anche ora che Papa Francesco è tornato alla Casa del Padre, il suo esempio di coraggio ci parla ancora, ricordandoci che ogni sofferenza può essere un mezzo di redenzione, ogni prova un’occasione per illuminare il cammino degli altri.

Francesco Palazzolo

IL NOSTRO GIUBILEO

Un segnale potente. Il giorno del Lunedì dell’Angelo la comunità cristiana e internazionale sono state sconvolte dalla notizia della morte di Papa Francesco. Il suo pellegrinaggio terreno si è concluso nel tempo pasquale, quasi come a ricordare che la morte non è la fine, ma è un nuovo inizio. Molti fedeli considerano un segno molto potente la conclusione del cammino terreno del Santo Padre il giorno in cui la Chiesa tramanda la memoria del trionfo della vita sulla morte: è un richiamo alla verità della fede che lui stesso ha testimoniato con umiltà e coraggio. Con il suo pontificato ha segnato la storia della Chiesa con la sua particolare attenzione agli ultimi, la difesa dell’ambiente e la lotta a ogni forma di esclusione. La morte di Papa Francesco il giorno del Lunedì dell’Angelo sembra richiamare ancora una volta all’essenza del suo messaggio: la speranza oltre la sofferenza e la luce oltre il buio. Per giunta, è una conclusione di particolare impatto di un pontificato che ha sempre cercato di portare il Vangelo nella nostra vita quotidiana. Il papa l’ha portato nella propria in maniera particolare, cominciando dalla sua scelta inedita di assumere il nome del poverello di Assisi: Francesco.

Matteo Carota