Dopo essersi affacciato il giorno di Pasqua alla loggia della Basilica Vaticana per l’ultima Benedizione “Urbi et orbi”, nel Lunedì dell’Angelo 21 aprile alle ore 7,35 Papa Francesco è tornato alla casa del Padre.
Cari fedeli e amici,
“La speranza non delude” è il tema scelto dal Papa per questo giubileo. Molto opportunamente, visto il panorama mondiale, che preoccupa e mette ansia per le sue sorti e per le tensioni che conosciamo. Ma qual è la speranza che non delude? Che cosa possiamo sperare? Chi è il garante della nostra speranza? Sono domande che ci facciamo, per non illuderci. Riflettiamo in occasione di questa Pasqua per non cadere vittime di speranze vane, che non si realizzeranno, che non avranno successo, lasciandoci delusi perché ci eravamo illusi.
Innanzitutto ci sono delle malattie della speranza che ci possono attaccare e rovinare la vita nostra e degli altri. Facciamo qualche esempio: si spera di ricostruire il passato così come è stato, ci si aggrappa a ideologie ritenute come la soluzione di tutti i problemi, si spera di aver tutto, subito, soprattutto senza fatica ciò che è effimero ma sembra gratificante.
Ci sono le speranze e la speranza.
Ognuno di noi coltiva dei desideri nel suo cuore. Analizzando questo termine, sembra che derivi da “de-sideribus”, che venga dalle stelle, dal cielo, dall’alto. È una bella interpretazione, significativa. La speranza è una realtà, presente soltanto in parte, ma ci proietta verso il futuro, verso qualcosa che ha da venire nella sua totalità. È la speranza che si vive nelle speranze di ogni giorno. Questo è umano, è vero. Infatti abbiamo la gioia di gustare frantumi di speranza vera, abbiamo la certezza che una speranza più grande si possa realizzare nella vita e che ci viene incontro. È già presente ma non ancora nella sia pienezza.
Forse dobbiamo fare la fatica di rimanere nella speranza e di conquistare il futuro. È un cammino che compiamo insieme nella vita. Non si tratta di una speranza a buon mercato, non lasciamoci prendere dalla vertigine dei consumi.
C’è una speranza seminata in noi, nel giorno del Battesimo. È Dio stesso che abita in noi, è Gesù seminato nelle zolle della terra, morto e risorto. In Lui crediamo, a Lui ci affidiamo. La nostra speranza è la fede che si distende nel tempo. È una presenza che ci abita, ci ama e ci precede. È Cristo stesso, morto e risorto, è personale e tende al sociale. Non possiamo far altro che testimoniare questa nostra relazione con Lui che si fa testimonianza. Tutto appare liquido ma Cristo è stabile. Tutto appare liquido, Cristo è stabile. A noi dimostrare la stabilità , aiutati dai segni sacramentali che ci danno la forza e l’impegno di trasformare il mondo.
Mons. Luciano Nobile, parroco
“DA CUORE A CUORE”
La fedeltà a se stessi
“Non è vinto se non colui che abbandona se stesso” (Sant’Agostino, Enarrationes in Psalmos, 144,14)
La sconfitta, per il Vescovo d’Ippona, non è mai innanzitutto esterna, politica, militare o culturale. È un cedimento dell’interiorità. Solo quando un uomo rinuncia alla propria identità più profonda, quando abdica alla propria vocazione, si può dire davvero sconfitto. “Non si perde che ciò che si lascia perdere,” dirà secoli dopo Antoine de Saint-Exupéry, e in questa semplice affermazione è racchiusa tutta la forza dell’idea cristiana della resistenza spirituale. Agostino, nella sua infaticabile ricerca della verità, insiste nel richiamare l’uomo al centro del suo essere. “Noli foras ire, in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas” — “Non andare fuori, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità.” È lì, nel cuore segreto dell’anima, che si combatte la vera battaglia. Ed è lì che si decide se resistere o cedere. Non c’è trincea più profonda dell’interiorità, nessun assalto esterno ha potere se non trova complicità nell’abbandono interiore. Ciò che non affrontiamo dentro di noi, prima o poi riemergerà, e spesso nei modi più inattesi. L’uomo può anche tentare di eludere la verità, ma essa non rinuncia mai a lui. A volte torna come un soffio lieve nella coscienza, altre come un richiamo insistente. La verità è cioè fedele, e non ci abbandona, nemmeno quando noi cerchiamo di abbandonarla. Le questioni irrisolte, le ferite mai guarite, le scelte, si ripresentano nel tempo a chiedere un bilancio di coerenza. Risuona la celebre battuta del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart: “Don Giovanni, a cenar teco m’invitasti, e son venuto.” Le nostre scelte, anche quelle non dichiarate, chiamano risposte. I pensieri accantonati, le responsabilità evitate, tornano come ospiti ineludibili che con insistenza domandano udienza. E in fondo, non c’è nulla di più liberante che affrontare ciò che prima ci faceva paura. Non c’è pace più autentica di quella che nasce da un passato riconciliato. Come scriveva C.S. Lewis: “Non puoi tornare indietro e cambiare l’inizio, ma puoi iniziare da dove sei e cambiare il finale.” La verità, anche quando sembra scomoda, è sempre un’opportunità di rinascita.
La resilienza del Friuli
Ed è qui che si rivela la grandezza dell’intuizione agostiniana: l’uomo non è vinto finché resta fedele a ciò che egli è davanti a Dio. E proprio qui, sorprendentemente, entra in gioco la storia concreta di un popolo e di una terra: il Friuli. Pochi luoghi incarnano con altrettanta dignità la verità contenuta nella sentenza agostiniana. Si pensi al trauma dell’invasione longobarda e alla devastazione di Aquileia nel VI secolo: poteva essere la fine ma comunità non fu vinta perché non disertò la propria identità. E così accadde nei secoli, nei conflitti medievali, nelle tensioni con Venezia, nei moti del Risorgimento, e ancora sotto l’urto violento della modernità. Ma nulla è eloquente quanto il terremoto del 1976. In poche ore, interi paesi vennero rasi al suolo. Si sarebbe potuto cedere allo scoramento, alla paralisi del lutto. Invece il popolo friulano scelse di non abbandonare se stesso: le fabbriche, le case, le chiese. Ma in verità, la prima pietra ricostruita fu invisibile: fu la coscienza di essere un popolo. Ciò che non si lascia morire, vive. E se in questi giorni abbiamo celebrato la festa della Patria del Friuli, non celebriamo una semplice commemorazione storica, ma la testimonianza di una fedeltà; alla propria lingua, alla propria memoria, alla propria vocazione spirituale e civile. Non è vinto chi non si lascia vincere, e il Friuli, pur ferito, ha saputo resistere senza perdere se stesso.
Nella scrittura, storia e letteratura
La Scrittura non tace su questo misterioso legame tra la fedeltà interiore e la forza nella prova. Pochi personaggi esprimono questa verità con la potenza di Giobbe. Derubato di tutto, colpito nel corpo, abbandonato persino dagli amici, non rinuncia però a essere se stesso davanti a Dio. “Anche se mi uccidesse, io spererei in lui” (Gb 13,15). Giobbe non è vinto perché non si svende. Non cerca una pace apparente, non pronuncia parole vuote solo per avere tregua. Rimane fedele alla verità, anche quando essa gli appare oscura. E alla fine, è Dio stesso che lo rivendica. Giobbe ci ricorda che la perseveranza non è ostinazione cieca, ma adesione profonda a ciò che si è nel cuore. Lo sapevano bene anche i padri del deserto, che nel silenzio delle grotte egiziane cercavano non la fuga dal mondo, ma l’essenza dell’uomo. E uno di loro, Evagrio Pontico, scriveva che il più grande nemico della vita spirituale non è il peccato, ma l’accidia, cioè quel torpore interiore che ci fa smettere di lottare, di cercare, di credere. L’accidia è il rifiuto di essere quello che si è chiamati a essere. È la resa silenziosa che precede ogni sconfitta. Ecco perché i monaci, pur vivendo in solitudine, combattevano ogni giorno una guerra vera: non contro uomini, ma contro la tentazione di disertare il proprio cuore. Tra le molte immagini che la letteratura ci ha lasciato della fedeltà silenziosa, è interessante considerare Dino Buzzati ne Il deserto dei Tartari. Il tenente Drogo attende per anni, ai confini di un regno che non attacca mai, l’arrivo di un nemico che forse non verrà. Intorno a lui, il tempo si disgrega, i compagni cambiano, il corpo invecchia. Eppure, alla fine, quando il destino si mostra — come un lampo tardivo — egli è ancora lì, al suo posto. Non per ingenuità, né per eroismo, ma per una forma di fedeltà a se stesso, alla propria vocazione, a quella “chiamata muta” che gli aveva indicato un confine da abitare. È un’immagine forte, quasi ascetica, di quella vigilanza interiore che spesso il nostro tempo deride, ma che forse è una delle poche realtà capaci di resistere al consumo dell’anima. E c’è qualcosa di profondamente cristiano in questa disponibilità a restare, anche quando nulla sembra accadere. Non è forse questa la fede: rimanere presenti, anche quando tutto intorno tace? Viviamo giorni in cui si confonde la verità con l’efficienza, la giustizia con la visibilità, la vocazione con il risultato. Ma ciò che veramente fonda la vita è altrove: è nella scelta costante di abitare ciò che si è, anche senza prove, anche senza garanzie. Ogni uomo e ogni donna che rimangono fedeli alla propria coscienza nel quotidiano — in famiglia, nel lavoro, nel lutto, nel perdono — testimoniano che non è vinto chi non si lascia vincere. La verità non si afferma a colpi di parole, ma con la coerenza di una presenza. Ecco perché, alla fine, Agostino ha ragione: non è vinto se non colui che diserta se stesso. Chi non fugge da ciò che è, alla lunga, costruisce.
Francesco Palazzolo
“DA CUORE A CUORE”
In cerca della città futura
“La città terrena, non vivendo secondo la fede, ricerca la gloria degli uomini e si vanta delle proprie opere.” Sant’Agostino, La Città di Dio, Libro V, 14
Il Sacco di Roma del 410 d.C. rivela la vulnerabilità dell’Impero Romano, la città eterna si rivela caduca, l’ordine del mondo sembra perso. La civiltà si interroga su dove Dio sia in tutto questo. Alcuni pagani accusano il cristianesimo di aver indebolito l’Urbe, privandola dei suoi dèi protettori. Sant’Agostino, in tutta risposta, propone una nuova teologia della storia.
Al cuore del suo pensiero c’è la contrapposizione tra due città: la civitas terrena, fondata sull’amore di sé fino al disprezzo di Dio, e la civitas Dei, fondata sull’amore di Dio fino al disprezzo di sé. La città terrena è l’immagine della superbia, dell’uomo che confida nelle proprie forze e cerca la gloria mondana. È Caino che costruisce la prima città (Gen 4,17), è Babilonia che si innalza fino al cielo (Gen 11,4), è Roma che si inorgoglisce della propria grandezza e non riconosce la provvidenza divina.
Agostino non nega che il mondo abbia un valore: in esso vivono i giusti e i peccatori, i santi e i malvagi. Ma la città terrena rimane precaria e temporanea, proprio perché soggetta allo scorrere del tempo. Il suo intento non è demonizzare la storia, ma mostrare ai cristiani che la loro vera patria non è qui. Scrive per i suoi diocesani, affinché non si scoraggino di fronte ai rovesci del mondo, ma comprendano che “non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura” (Eb 13,14).
Questa prospettiva conduce a una presenza consapevole: il cristiano vive nel mondo senza appartenervi. Qui si innesta il grande tema del rapporto tra il credente e il mondo, e tra la Chiesa e la società. Se Agostino getta le basi di questa riflessione, altri santi, in epoche diverse, ne hanno incarnato le implicazioni.
San Francesco di Sales e il cristiano nel mondo
Tra questi, San Francesco di Sales si distingue per il suo approccio positivo e fiducioso. Vescovo nella Chiesa del Seicento, epoca di guerre religiose e divisioni, egli non si rifugia in una visione polemica o difensiva, ma indica una via di santità per tutti, anche per chi vive nel mondo. Il suo Filotea è un vero e proprio trattato di spiritualità per i laici: “È un errore, anzi un’eresia, voler escludere l’esercizio della devozione dalla vita militare, dalla bottega degli artigiani, dalla corte dei principi, dalla vita coniugale” (Filotea, I, 3).
Comprende che la città terrena, con tutte le sue occupazioni e responsabilità, non è un ostacolo alla santità, ma il luogo in cui essa si realizza. Il cristiano è chiamato a trascendere il mondo dal suo interno, senza fughe.
- un’idea che troverà piena espressione nel Concilio Vaticano II, quando si affermerà che i laici “sono chiamati da Dio perché, mossi dallo spirito cristiano, esercitino il loro apostolato nel mondo, a modo di fermento” (Apostolicam Actuositatem, 2).
Un altro esempio significativo è San Giovanni Bosco, che vive nel secolo XIX, in piena rivoluzione industriale. Il suo impegno per i giovani operai, il suo dialogo con la società del tempo, la sua capacità di leggere i segni dei tempi e rispondere con creatività e coraggio ne fanno un modello di santità “nel mondo”. Non si oppone alla modernità, ma cerca di evangelizzarla dall’interno, anticipando il pensiero sociale della Chiesa.
Le encicliche: la Chiesa interpreta il mondo
I pontefici, lungo i secoli, hanno progressivamente affinato lo sguardo della Chiesa sul mondo, non come una realtà da combattere, ma da comprendere e redimere. Il primo documento della Chiesa che affronta in modo sistematico la questione sociale è la Rerum Novarum (1891) di Leone XIII, che difende la dignità dei lavoratori e afferma il principio della giustizia sociale. Con essa, la Chiesa entra con autorità nel dibattito sulle trasformazioni economiche e sociali della modernità. Da allora, le encicliche sociali hanno segnato la storia: Quadragesimo Anno (1931) di Pio XI affronta la crisi del capitalismo e propone il principio della sussidiarietà; Mater et Magistra (1961) di Giovanni XXIII amplia l’orizzonte alla cooperazione internazionale; Populorum Progressio (1967) di Paolo VI fa dell’opzione per i poveri un criterio di giudizio sulla politica e l’economia. Giovanni Paolo II, con Centesimus Annus (1991), riflette sulla caduta del comunismo e sulle sfide della globalizzazione. Benedetto XVI, con Caritas in Veritate (2009), evidenzia il nesso tra etica e sviluppo, mentre Papa Francesco, nella Laudato Si’ (2015), allarga la prospettiva alla cura della casa comune, mostrando che la questione ecologica è inseparabile da quella sociale.
In tutto questo emerge un filo conduttore: la Chiesa si fa interprete dei bisogni più profondi del mondo e, come si è visto, con notevole lungimiranza.
Conclusione
La città terrena, con le sue contraddizioni e le sue promesse, resta il luogo in cui il cristiano è chiamato a vivere. Agostino ci insegna che non possiamo riporre la nostra fiducia nelle strutture umane, perché “passa la scena di questo mondo” (1 Cor 7,31). Ma ci insegna anche che, finché siamo qui, il nostro compito è vivere in un certo modo.
San Francesco di Sales e San Giovanni Bosco ci mostrano che non si tratta di fuggire dal mondo, ma di abitarlo con fede. E il magistero della Chiesa continua a discernere i segni dei tempi, offrendo una bussola per orientarsi in un mondo che cambia.
Il cristiano vive nel mondo senza appartenere al mondo (Gv 17,16). È cittadino della terra, ma con lo sguardo rivolto al cielo. Ed è proprio questa tensione, questa duplice appartenenza, a rendere la sua presenza feconda.
Francesco Palazzolo
“DA CUORE A CUORE”
Città di Dio e città degli uomini
“La città di Dio vive nella pace eterna, perché in essa non c’è disordine, ma un’ordinata obbedienza alla volontà divina.”
(Agostino, De Civitate Dei XIX, 11)
La riflessione di Agostino sulla civitas Dei e la civitas terrena non si limita a una distinzione tra realtà spirituali, ma è lettura della storia e della condizione umana, distinta tra l’amore per se stessi e l’amore per Dio. “Due amori hanno fatto due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio ha edificato la città terrena; l’amore di Dio fino al disprezzo di sé ha edificato la città celeste” (De Civitate Dei, XIV, 28). Questa affermazione è fondamentale per comprendere la visione agostiniana, poiché la città di Dio non è un concetto astratto ma si radica nella vita concreta di ogni uomo. La civitas Dei, pur non essendo un’entità fisica, è una realtà spirituale e morale che si concretizza nel comportamento e nelle scelte di vita dei suoi membri. Proviamo a fare delle considerazioni su quest’opera colossale.
La Città di Dio. Dettagli storici e teologici
Il contesto storico (La Città di Dio fu scritta tra il 413 e il 426 d.C.) è un periodo critico per l’Impero Romano. La violazione di Roma da parte dei Visigoti nel 410 d.C. rappresentò un trauma profondo per l’Occidente, un evento che segnò il declino di un impero che era stato, per secoli, simbolo di ordine e di potenza. In questo contesto, Agostino, vescovo di Ippona (attuale Annaba, in Algeria), scrisse l’opera per rispondere alle critiche mosse dai pagani contro il cristianesimo, accusato di essere la causa prima del declino e poi del crollo dell’Impero Romano. Agostino difende la fede cristiana, affermando che la vera civitas non è quella terrena, destinata a decadere, ma quella celeste, che trova la sua fondazione “nell’amore di Dio e nella grazia”. La struttura dell’opera si articola su due livelli: uno storiografico e uno teologico. Nel primo, Agostino esamina gli eventi storici alla luce della volontà divina, sostenendo che la caduta di Roma non è un castigo del Dio cristiano, ma il risultato di una vita mondana, priva di vera giustizia e di vera pace. È il risultato di un modo di vivere dominato dall’egoismo, dove gli uomini si allontanano dalla legge divina per perseguire i propri desideri terreni. Nel secondo livello, Agostino espone una visione escatologica: la civitas Dei è una realtà spirituale che affonda le radici nel cuore di ogni cristiano, ma che troverà il suo compimento definitivo solo al termine della storia, quando Dio giudicherà il mondo e dividerà definitivamente i giusti dai peccatori. Questa città celeste è comunità fondata sulla carità e sull’obbedienza alla volontà di Dio, da essa nasce la vera giustizia e la pace eterna. In effetti, Agostino non sta solo facendo una riflessione filosofica o teologica, ma risponde anche a una serie di domande urgenti poste dalla sua contemporaneità. Cosa significa che Roma è caduta? E cosa ci insegna questo fatto rispetto alla vera natura della civiltà umana? A queste domande Agostino risponde, dicendo che le vere civiltà non sono fatte da regni terreni o dall’ordine sociale imposto dalla forza, ma da un ordine che trova la sua radice nell’amore per Dio, che supera ogni confine temporale e materiale. Non solo: è anche l’unico vero ordine possibile, l’unica struttura che possa definirsi tale, l’unico sistema ordinato a priori che non dipende dalle condizioni materiali o politiche del mondo. Questo ordine è quello che consente la vera libertà: non quella di fare ciò che si vuole, ma quella di vivere secondo il piano divino, che è il piano del bene assoluto.
Questo ordine teologico si riflette anche nelle istituzioni della Chiesa, che per Agostino rappresentano l’anticipo della civitas Dei. La Chiesa, infatti, è la comunità di fedeli che, attraverso la partecipazione ai sacramenti e l’osservanza della legge divina, si prepara alla cittadinanza nella civitas Dei, un regno che, per quella stessa sua dimensione escatologica, si realizzerà pienamente solo nel regno dei cieli.
La complessità e la fisica moderna
Credo valga la pena soffermarsi sul tema dell’ordine, perché vi si trova una sorprendente sintonia con le intuizioni moderne della teoria della complessità, in particolare con la tesi di Giorgio Parisi, che gli valse il Nobel pochi anni fa. Se consideriamo la visione agostiniana della civitas Dei, possiamo paragonarla a un sistema complesso in cui, pur essendo composta da elementi individuali, emerge un ordine superiore che trascende le singole parti. Questo ordine, per Agostino, si realizza progressivamente, man mano che l’individuo, attraverso la grazia divina, ascende verso Dio. Il concetto di civitas Dei si fonda su una verticalità dell’ordine, dove più si sale verso Dio, più si scopre un ordine perfetto e completo, in grado di superare il caos e il disordine della civitas terrena. Parisi, nel descrivere i sistemi complessi, ci mostra come oggetti che sembrano semplici, come le molecole, attraverso la loro interazione possano generare comportamenti collettivi che sono molto diversi da quelli che ciascun agente avrebbe individualmente. Un esempio tipico è quello delle molecole d’acqua: pur seguendo leggi fisiche semplici, esse danno vita a fenomeni collettivi come l’evaporazione e la solidificazione, nei quali il comportamento globale non può essere spiegato solo attraverso l’azione delle singole molecole, ma emerge solo quando queste si trovano a interagire in un contesto più ampio. Questo fenomeno, descritto da Parisi come un “cambio di fase” nei sistemi complessi, è il cuore della tesi agostiniana sull’ordine. Questo cambio di fase collettivo lo notiamo anche in società; quando poche persone si trovano nella metropolitana, per esempio, i flussi di passeggeri che vanno in direzioni opposte sono casuali, senza un’organizzazione evidente. Tuttavia, man mano che il numero di persone aumenta, accade che la gente in transito cominci ad organizzarsi in due flussi distinti: una parte si orienta lungo un lato del corridoio, mentre l’altra si dispone nell’opposto. Questo ordine emergente non è il risultato di un piano prestabilito, ma nasce spontaneamente dall’interazione tra le persone, che, nel loro movimento, tendono a seguire un comportamento collettivo che riduce il caos e crea una maggiore organizzazione e sincronizzazione. La civitas Dei agostiniana è, in un certo senso, un “sistema complesso” in cui gli individui, pur essendo liberi e autonomi, contribuiscono a un ordine divino che emerge solo quando l’umanità intera si unisce nella grazia di Dio. In questo senso, Agostino anticipa, in termini spirituali e teologici, la visione che Parisi propone per la scienza moderna: che l’ordine, pur essendo presente in ogni singolo agente, si manifesta in modo pieno e perfetto solo quando questi agenti sono parte di un sistema che trascende la somma delle singole parti.
Francesco Palazzolo
“DA CUORE A CUORE”
Nel silenzio Dio parla
“Se vuoi ascoltare la parola di Dio, taci!”.
Sant’Agostino, Sermones 52,16
Un invito caloroso, quello del vescovo di Ippona, che lascia poco spazio all’interpretazione del significato. Ci invita piuttosto all’esplorazione della sua profondità. Il “tacere” a cui ci invita suggerisce una riflessione a più livelli perché, in fin dei conti, il silenzio non è semplicemente l’assenza di suoni o parole, ma rappresenta un momento di apertura interiore, in cui la mente e il cuore si liberano dalle distrazioni, diventando pronti ad accogliere la presenza divina. Il silenzio è il luogo dell’incontro. È lo spazio vuoto che permette alla Parola di attecchire. Pensiamo a Mosè davanti al roveto ardente (Es 3,2). Dio non gli parla nel frastuono, ma in quel silenzio carico di mistero. E Mosè, per ascoltare, deve togliersi i sandali: un gesto che è segno di spoliazione, di umiltà. Anche noi, per ascoltare Dio, dobbiamo “togliere le scarpe” delle distrazioni, delle parole inutili, delle preoccupazioni che ci affollano la mente. Agostino, nel De Trinitate, scrive che l’anima trova Dio “nel segreto più intimo di se stessa”, e che questo segreto si apre solo nel silenzio. È come se la parola di Dio fosse un seme: non può crescere in un terreno rumoroso, battuto e sturo, ha bisogno di profondità e raccoglimento. Ecco perché Gesù, prima di iniziare la sua missione, si ritira nel deserto per quaranta giorni (Mc 1,12-13). Il silenzio diventa il punto di partenza, il tempo necessario per lasciare che “la voce del Padre risuoni senza interferenze”. I monaci del deserto lo sapevano bene: il silenzio è un’arte. “Fuggi, taci, riposa” diceva Abbà Arsenio. Fuggire non nel senso di scappare dal mondo, ma dal superfluo, da ciò che appesantisce l’anima. Tacere, non per disinteresse, ma per imparare ad ascoltare. E riposare, cioè lasciare che il cuore si distenda, che smetta di agitarsi inutilmente. È in questo spazio che Dio parla.
Un gesto di purificazione
L’assenza di parole, però, da sola non basta: ci vuole lavoro interiore. Agostino scrive: “Ritorna al tuo cuore, e in esso troverai Dio” (Sermones 311,13). Ma il cuore è spesso un luogo caotico. Pensieri che si accavallano, desideri che ci trascinano da una parte all’altra, paure che fanno rumore anche quando tutto è tranquillo. Il silenzio diventa allora una purificazione: un tempo in cui lasciar decantare l’anima. San Giovanni della Croce parla della “notte oscura” come di un tempo in cui Dio priva l’anima di ogni consolazione sensibile per insegnarle a cercarlo in profondità. È come se Dio ci dicesse: “Non ti parlo nel modo in cui vorresti, perché voglio che tu impari a cercarmi oltre le emozioni”. Quando tutto tace, il cuore impara a distinguere la voce di Dio, questo vuoto ci mette di fronte a noi stessi, senza scuse. Quando smettiamo di parlare, emergono le domande vere: “Chi sono? Cosa cerco? Di cosa ho paura? ecc.”. È un processo che può fare paura, perché ci costringe a guardare in faccia le nostre fragilità. Ma è proprio lì che Dio ci aspetta; lo sappiamo dalla Bibbia: Dio parla spesso ai suoi profeti nel deserto: uno spazio vuoto, dove non ci si può nascondere. E così è il silenzio: un deserto interiore dove, poco a poco, impariamo a riconoscere la voce che ci chiama per nome. È da notare che i monaci chiamavano il silenzio hesychia, cioè “quiete”, a sua volta definita come il risultato di una lotta. Chi sceglie il silenzio scopre presto quanto sia difficile restarci. Ma è proprio in questa fatica che l’anima si rafforza. Perché il silenzio ci educa: ci insegna la pazienza, la perseveranza, l’umiltà di non pretendere risposte immediate.
Presenza discreta di Dio
Alla fine, il silenzio diventa un’esperienza di presenza. San Francesco d’Assisi, nei momenti più difficili, si ritirava in silenzio nei boschi o nelle grotte. Non cercava risposte immediate, ma lasciava che il silenzio lo riconducesse all’essenziale. E spesso tornava con una pace profonda, frutto non di parole nuove, ma della riscoperta della presenza di Dio nelle cose semplici. Anche nella vita di ogni giorno, il silenzio può diventare uno spazio di incontro. Non serve invero granché: basta proprio dedicarvi qualche momento. Fermarsi qualche minuto in chiesa dopo la Messa, senza correre subito via. Camminare lasciando che solo il respiro e i passi restino a cadenzare il pensiero. Oppure spegnere il cellulare la sera e restare qualche istante in silenzio prima di dormire, lasciando che la giornata decanti davanti a Dio. Sono momenti in cui non succede nulla di straordinario, ma sono un buon esercizio per il cuore. A poco a poco impariamo a stare con noi stessi senza scappare, a lasciare che i pensieri si plachino, a riconoscere quella pace sottile che arriva quando smettiamo di riempire tutto con le parole. E lì, in quel silenzio quotidiano e discreto, ci accorgiamo che Dio è presente. “Se vuoi ascoltare la parola di Dio, taci!” È un invito che vale per tutti, perché il silenzio è una scuola che ci insegna a vivere meglio. Ci rende più attenti, più presenti, più capaci di accogliere l’altro senza dover sempre dire la nostra. Ci aiuta a ridimensionare i problemi, a trovare pace nelle difficoltà, a riscoprire la bellezza delle cose piccole. E, soprattutto, ci apre alla voce più importante, che ha tutto un altro linguaggio. “Quando ci si chiama fra noi uomini, la chiamata è chiarissima. Quando chiama Dio, la cosa è diversa; niente di scritto o di forte o di evidentissimo: un sussurro lieve, un pianissimo che sfiora l’anima.” (Giovanni Paolo I).
Francesco Palazzolo
“DA CUORE A CUORE”
Un esercizio di resurrezione quotidiana
“Digiuniamo in questi giorni santi affinché il nostro corpo sia strumento dell’anima e il cuore si apra alla carità” (Sant’Agostino, Sermones)
Sant’Agostino ci offre un’immagine potente del digiuno: non come semplice rinuncia, ma come trasformazione. Digiunare è ridare al corpo la sua vocazione più alta — essere strumento dell’anima — e aprire il cuore alla carità. Ma cosa significa, concretamente, questa apertura? E perché privarsi di qualcosa può arricchire la vita? Una libertà ritrovata Sant’Agostino stesso lo diceva: “Chi è schiavo delle proprie passioni, non è libero.” Rinunciare volontariamente a qualcosa — che sia il cibo, le distrazioni, o l’impulso a parlare sempre — ci insegna a governare noi stessi, a non lasciarci dominare dagli automatismi. Come scriveva Thich Nhat Hanh: “La vera libertà è essere padroni della propria mente.” Questa libertà interiore ci restituisce anche il gusto della semplicità. La privazione temporanea ci educa ad apprezzare ciò che diamo per scontato. In un certo senso, il digiuno ci aiuta a riscoprire il valore dell’attesa. Viviamo in un mondo dell’”adesso“, dove tutto è immediato, ma le cose più preziose richiedono tempo per maturare. La pazienza del contadino che aspetta la crescita del seme ci insegna che la rinuncia di oggi può portare frutto domani. E così, digiunando, coltiviamo la virtù della speranza: la capacità di guardare oltre il sacrificio presente verso una pienezza futura.
Un corpo che si fa spazio
Ma il digiuno non riguarda solo la mente: coinvolge anche il corpo. Privarsi di un pasto, per esempio, ci ricorda che il corpo ha bisogni reali, ma anche che può resistere molto più di quanto pensiamo. È un ritorno all’essenziale, un modo per riscoprire la sobrietà come valore. Pensiamo a San Francesco d’Assisi, che abbracciava la povertà non per disprezzo del mondo, ma per amarlo di più. “Desidero poco, e quel poco che desidero, lo desidero poco”, diceva. Ridurre il superfluo non impoverisce, ma libera spazio per l’essenziale. Come quando, facendo ordine in casa, ci accorgiamo che eliminare il caos fisico ci regala anche più chiarezza mentale. Anche molte filosofie orientali insegnano che l’eccesso di stimoli ci appesantisce. Il monaco buddista Matthieu Ricard scrive: “La felicità duratura non deriva dall’accumulare, ma dal lasciare andare.”
Questa logica non è lontana dal pensiero cristiano: svuotarsi del superfluo, anche a livello fisico, crea uno spazio interiore dove può abitare qualcosa di più grande. Digiuno e relazioni: imparare a donarsi Il digiuno non è solo una questione di sottrazione, ma anche di ascolto. Quando rallentiamo e riduciamo il rumore intorno a noi, iniziamo a percepire meglio i segnali del corpo, le emozioni più sottili, i pensieri nascosti. È come spegnere le luci della città per vedere le stelle: solo quando il frastuono si placa, emergono dettagli che prima ignoravamo. In questo senso, il digiuno ci educa a una forma più profonda di presenza a noi stessi e al mondo. Questo è vero anche perché apre alla carità. Sant’Agostino scriveva: “Ciò che risparmi nel digiuno, donalo ai poveri.” Ma questa logica va anche oltre l’aspetto materiale: digiunare può significare anche rinunciare a una parola dura, a un giudizio affrettato, a un po’ del nostro tempo per ascoltare davvero chi ci sta accanto. La psicologia moderna conferma che pratiche come la gratitudine e l’altruismo migliorano anche il benessere emotivo di chi le pratica. Insomma, il digiuno ci ricorda che siamo connessi agli altri, che la nostra libertà è vera solo quando diventa amore.
Una rinuncia che fiorisce
Forse il senso più profondo del digiuno sta proprio qui: nel creare un vuoto che può essere riempito da qualcosa di più grande. È un principio che troviamo in molte tradizioni. In Giappone, il concetto di ‘ma’ indica lo spazio vuoto che dà senso alla forma: senza ‘pause’, la musica sarebbe solo rumore; senza spazi ‘bianchi’, la pittura sarebbe un ammasso di colori indistinti. Allo stesso modo, togliere qualcosa dalla nostra vita — anche solo temporaneamente — ci permette di riscoprire il valore di ciò che rimane. “Se vuoi riempire un vaso, devi prima svuotarlo”, diceva ancora Sant’Agostino. Il digiuno, allora, non è tristezza, ma attesa. È un tempo di potatura, perché la vita possa rifiorire con più intensità. Come la natura che in inverno sembra morire, ma in realtà si prepara a sbocciare. Alla fine del digiuno quaresimale c’è la Pasqua: non la negazione della vita, ma la sua pienezza. Forse, ogni piccola rinuncia che scegliamo di fare può diventare proprio questo: un piccolo esercizio di resurrezione quotidiana. Un modo per ricordarci che, liberandoci da ciò che ci appesantisce, possiamo camminare più leggeri verso ciò che davvero conta.
Francesco Palazzolo
“Ho immaginato gente di ogni ‘colore’, nazionalità e cultura, spingersi dai quattro angoli della Terra e muoversi in rotta verso il futuro, gli altri, il mondo – dice emozionato Giacomo Trevisani -, come vele di una grande nave comune, spiegate grazie al vento della Speranza che è la croce di Cristo e Cristo stesso”.
Nel “personificare” la Speranza ha pensato subito alla Croce: “La Speranza, mi sono detto, è nella Croce”. Quindi ho “immaginato il Papa, Pietro di oggi, guidare il popolo di Dio verso la mèta comune, abbracciando la Croce, che diviene un’ancora, quale saldo riferimento per l’umanità”, mentre il popolo si stringe a lui e anche a quell’ancora cui si stringono i pellegrini di ogni tempo.
“Siamo ‘Pellegrini di Speranza” perché portiamo con noi le paure del prossimo nel desiderio di condividerle e farle nostre – conclude l’autore del logo del Giubileo del 2025 richiamando infine il motto – questo indicano le figure che si stringono tra loro guardando alla Croce come un’ancora di salvezza”.
ASPETTI STORICI
Il 2025 per la Chiesa Cattolica è un anno particolarmente importante, caratterizzato dal Giubileo che ha come tema “La speranza non delude”. È il secondo giubileo di Papa Francesco dopo quello straordinario del 2015 conosciuto come giubileo della misericordia.
Qual è l’origine del Giubileo? E quali sono le sue caratteristiche?
Alcuni cenni storici ci aiuteranno a capire questo avvenimento ed il suo sviluppo nei secoli. Il termine Giubileo deriva dalla tradizione ebraica in cui il Jobel (un corno di ariete) veniva suonato per annunciare l’inizio di Yom Kippur il giorno dell’espiazione.
Il primo Giubileo fu indetto nell’anno 1300 da papa Bonifacio VIII il quale nella bolla di indizione concesse “in questo centesimo anno e in qualunque centesimo anno a venire pienissima perdonanza dei peccati” Con questo bolla si fissavano due aspetti importanti del Giubileo: la ricorrenza dei cento anni e l’indulgenza plenaria. Il tredicesimo secolo peraltro era stato caratterizzato da aspettative di “renovatio“, di una fine dei tempi che avrebbe inaugurato il regno di Dio. Questa visione escatologica era stata portata avanti da personalità come Gioacchino da Fiore e il più conosciuto Jacopone da Todi. Grande fu la presenza di pellegrini a Roma i quali ottennero l’indulgenza plenaria dei peccati: bastava che, pentiti e confessati, i fedeli visitassero le chiese di San Pietro e San Paolo per 30 volte se romani, per 15 se forestieri.
Il secondo Giubileo fu proclamato da Papa Clemente VI nel 1350 contrariamente ai 100 anni fissati da papa Bonifacio. Nella bolla di indizione si faceva riferimento alla volontà di esaudire il desiderio del popolo romano che supplicava che a questi eventi potessero partecipare un maggior numero possibile di persone poiché pochi sono gli uomini che, a causa della brevità della vita, sono in grado di vivere cent’anni”. ll Giubileo fu celebrato in una Roma senza Papa in quanto questi si era trasferito ad Avignone e nonostante gli appelli al ritorno nella città eterna, questi caddero nel vuoto. Purtroppo una grande epidemia di peste interessò l’Europa tutta ed un terzo della popolazione soccombette (ad Avignone sede papale mori meta della popolazione).
Fino al 1500 assistiamo all’indizione di vari Giubilei con scadenza diversa da quella cinquantennale. Si fra strada la celebrazione a ricordo della redenzione di nostro Signore e l’intervallo viene ridotto a 33 anni. Lo scisma d’occidente causa la contemporanea presenza anche di tre papi, Martino V, finalmente unico papa, decise di celebrare il Giubileo nel 1423. La novità di questo giubileo fu l’apertura della Porta Santa però non a San Pietro ma a San Giovanni in Laterano: un atto simbolico che richiamava le parole di Gesù Cristo ” Io sono la porta delle pecore…chi entra per me sarà salvo.” Con il Giubileo del 1475 si fissò definitivamente la scadenza a 25 anni. Lo scisma d’occidente, la calata dei turchi e la caduta di Costantinopoli, le varie epidemie e carestie erano uno sprone per fare penitenza e chiedere perdono a Dio e convinsero Papa Paolo ll a ridurre il divario di tempo fra un Giubileo e l’altro. ll Giubileo del 1500 fu particolarmente importante e il papa Alessandro Vl volle che fosse chiamato Anno Santo. Molto curata fu l’organizzazione dell’evento: fu aperta una nuova strada fra San Pietro e Sant’Angelo, furono fondate nuove chiese e nuovi ospizi per i pellegrini, curati gli approvvigionamenti e calmierati i prezzi.
La partecipazione dei fedeli fu importante anche se non secondo le attese: le guerre in corso, la calata dei turchi con le loro scorrerie sconsigliavano i viaggi. La chiusura della Porta Santa fu rimandata all’Epifania del 1501 in quanto nel mese di novembre a Roma era straripato il Tevere.
I Giubilei del 1525 e 1550 furono celebrati in tono dimesso: eravamo in pieno periodo di riforme (la vicenda di Martin Lutero risale a quegli anni) e forse sarebbe stato necessario, più opportunamente, un concilio per procedere alla riforma delle Chiesa. Fra l’altro il tema delle indulgenze (che nel Giubileo rappresenta il motivo della massiccia presenza dei fedeli per ricevere proprio le indulgenze) era uno dei temi caldi della riforma luterana.
Il Giubileo del 1575 fu l’Anno Santo per eccellenza. Finito il Concilio di Trento, l’undicesimo Giubileo fu l’espressione del rinnovamento e della purificazione della Chiesa. All’apertura della Porta Santa il pontefice Gregorio XIII volle accanto a sé il cardinale Carlo Borromeo, che sarà proclamato santo. Lo stesso Papa in prima persona, penitente fra i penitenti, si prodigò nel ricevere fedeli e dispensare benedizioni. Importante la presenza massiccia delle confraternite nell’accogliere i pellegrini e guidare le innumerevoli processioni con la recita del Rosario che, dopo la vittoria di Lepanto contro i turchi, acquistò particolare importanza.
Fra gli altri Giubilei va ricordato quello del 1700 per una massiccia presenza di pellegrini inglesi più che in qualsiasi altro giubileo precedente e successivo. Molti di essi lasciarono toccanti testimonianze della religiosità popolare e di fede delle migliaia di persone presenti. Il 1800 vide l’assenza del Giubileo. Napoleone aveva imprigionato il papa Pio VI che mori in esilio in Francia. Anche il suo successore Pio VII venne imprigionato e poté tornare in Italia dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo.
Il Giubileo del 1825 viene ricordato come quello della Restaurazione.
Il timore di Papa Leone Xll e anche di Metternich (primo ministro austriaco) era quello che sotto le spoglie di pellegrini si celassero cospiratori e carbonari pronti ad agire. Da qui anche la presenza massiccia di polizia e gendarmi e le rigide disposizioni in materia di circolazione delle cose e delle persone. Il Giubileo si svolse quindi in forma austera e la ridotta presenza delle confraternite che curavano l’organizzazione dell’evento, non agevolò una notevole partecipazione dei pellegrini. Gli anni 1850 e 1875 non videro lo svolgersi del Giubileo tradizionale. Il primo si svolse in forma suppletiva, il secondo a porte chiuse. Nel 1849 era stata fondata la repubblica Romana e il papa Pio IX dovette fuggire a Gaeta ospite del re di Napoli, mentre a Roma veniva proclamata la fine del potere temporale del Papa. Nel 1870 avvenne la presa di Porta Pia da parte dello Stato italiano ed il Papa (era sempre Pio IX che visse sino al 1878) si considerò un “prigioniero” e lasciò il Quirinale per ritirarsi in Vaticano, sperando nella liberazione da parte delle potenze cattoliche. Tre sono i momenti di rilievo storico-religioso in quegli anni: nel 1854 la proclamazione del dogma della Immacolata Concezione, nel 1857 la proclamazione di un giubileo straordinario per i 1800 anni dalla morte dei Santi Pietro e Paolo e l’apertura del Concilio Vaticano l. Nel 1875 ci fu l’indizione di un Giubileo ma non ci fu l’apertura della Porta Santa e il Papa scese in basilica ad acquistare l’indulgenza alla sola presenza del clero romano.
Con il Giubileo del 1900 la ricorrenza sembrò tornare alla normalità. ll 90enne Papa Leone Xlll dopo 75 anni riaprì nuovamente la Porta Santa. Sia il re che la Camera ed il Senato espressero il loro favore per questa iniziativa ma non mancarono le forti resistenze della Massoneria che in qualche modo voleva celebrare un Contro giubileo. La presenza dei pellegrini fu notevole nonostante la scarsa presenza di strutture adeguate ad ospitarli. Momenti di tensione con le forze anticlericali o con l’integralismo religioso ci furono in occasione dell’uccisione del re Umberto il 29 luglio del 1900 e con lo straripamento del Tevere. Il Giubileo si chiuse regolarmente il 24 dicembre del 1900: il Papa murò personalmente tre mattoni della Porta Santa. Alla fine, si contarono circa 350.000 pellegrini e molti si servirono del treno, una novità che avrebbe successivamente stimolato il turismo religioso. I l Giubileo del 1925 si aprì nel solco della tradizione con un carattere di natura internazionale e missionaria. Molti i vescovi che venivano da tutte le parti del mondo e nell’occasione fu organizzata una mostra missionaria mondiale. Papa Pio XI auspicava oltre alla conversione dei fedeli, fine primario di ogni Giubileo, anche la pace fra i popoli, l’unione dei fratelli separati, la soluzione dei problemi relativi alla Terra Santa. Nel pomeriggio della Vigilia di Natale furono aperte le Porte Sante delle quattro basiliche: quella di San Pietro dal Papa, le altre tre dai suoi legati: il Papa si considerava ancora prigioniero. Il Giubileo fu un grande successo di presenze da ogni parte del mondo e si concluse anche con la Festa di Cristo Re, istituita dal Papa con una apposita enciclica. Il ricordo dei 1600 anni del Concilio di Nicea fu opportunamente festeggiato. Il Papa ricordò inoltre che nel 1926 sarebbe ricorso il settimo centenario della morte di San Francesco e auspicava che quello spirito di riconciliazione e penitenza tipico del Giubileo, sarebbe continuato in quanto parte fondamentale del pensiero francescano. Papa Pio XI celebrò anche due giubilei straordinari: nell’anno 1929 in occasione della firma dei Patti Lateranensi e nel 1933 per ricordare i 1900 anni della morte di Nostro Signore. ll 1950 è un anno Giubilare importante. Il 24 dicembre 1949 alla vigilia dell’apertura della Porta Santa nel radiomessaggio Papa Pio XII afferma che L’Anno Santo dovrà segnalarsi come anno del gran ritorno, anno del gran perdono. Generose le condizioni fissate per l’acquisto dell’indulgenza: una sola visita nello stesso giorno o in giorni diversi delle quattro basiliche e la recita di tre Pater, Ave, Gloria in ciascuna di esse. Il Giubileo ebbe grandissimo successo richiamando pellegrini da ogni parte del mondo, favoriti anche dai comodi mezzi di trasporto. Duecentomila persone parteciparono alla canonizzazione di Maria Goretti.
Alla cerimonia di chiusura del Giubileo del 1950 venne data la sensazionale notizia del ritrovamento della Tomba di San Pietro posta proprio sotto la cupola della Basilica. Sempre durante il Giubileo Papa Pio XII aveva proclamato il dogma della Assunzione della Beata Vergine Maria in cielo. Nel 1954 per la ricorrenza dei cent’anni del dogma della Immacolata Concezione di Maria ritenne di indire il primo Anno Santo Mariano che ebbe inizio nel dicembre 1953 e terminò nel dicembre 1954. I dubbi sull’opportunità di indire l’anno Giubilare per il 1975 non furono pochi per Papa Paolo VI. Era appena terminato il Concilio Vaticano II che aveva portato in seno alla Chiesa grosse novità, notevoli cambiamenti ed il Giubileo sembrava in quel contesto una celebrazione per molti aspetti anacronistica. Alla fine, prevalse la volontà di dare seguito alla indizione del Giubileo. Il papa ribadì più volte la sua volontà: finito il momento della riflessione e di riforma iniziato dal Concilio ora si apriva quello della costruzione teologica, spirituale e pastorale. La notte della Vigilia di Natale il papa apri la Porta Santa e la cerimonia fu trasmessa per la prima volta in mondovisione. I pellegrini furono circa 8.700.000 e potevano ricevere l’indulgenza semplicemente visitando una delle basiliche. Alla conclusione dell’Anno Santo l’indulgenza fu concessa anche a coloro che seguivano il rito alla radio o tramite la televisione. L’enorme concorso di fedeli rese insufficienti i tradizionali luoghi di udienza per cui gli incontri con il papa avvennero anche in Piazza San Pietro.
Papa Giovanni Paolo II celebrò due giubilei speciali che possono essere considerati preparatori di quello del 2000 ventesimo ordinario. Nel 1983 con una scelta sorprendente promulgò il Secondo Anno Santo della Redenzione, 50 anni dopo quello promosso da Pio XI nel 1933. Nel 1984 all’interno del Giubileo della Redenzione il Papa volle che fosse tenuto anche il Giubileo dei giovani e nel 1987 un nuovo Anno Mariano. Il 24 di dicembre del 1999 Giovanni Paolo II aprì la Porta Santa della Basilica di San Pietro dando avvio all’Anno Santo del 2000, il giorno seguente il Papa aprì la Porta Santa di San Giovanni in Laterano, il I gennaio 2000 quella di Santa Maria Maggiore mentre a San Paolo fuori le mura il rito ebbe luogo il 18 gennaio alla presenza di numerosi rappresentanti delle diverse confessioni. La prima domenica di quaresima si celebrò la Giornata del Perdono. Dal 21 al 25 marzo il Papa andò pellegrino in Terrasanta e nel mese di agosto alla messa conclusiva della giornata mondiale della gioventù parteciparono due milioni e mezzo di persone. La chiusura dell’Anno Santo avvenne il 6 gennaio del 2001 e alla Messa all’esterno della basilica intervennero quasi 100 mila persone. Durante il Giubileo a Roma vennero registrati 25 milioni di arrivi e 78 milioni di presenze: un successo senza precedenti. (Fine)
Fausto Cosatti
IL NOSTRO GIUBILEO
Nella Chiesa cattolica, il Giubileo è unito ad una indulgenza plenaria che i fedeli possono ricevere recandosi in pellegrinaggio a Roma e compiendo particolari pratiche come visitare le Basiliche romane, recitare il Padre nostro, il Credo, una preghiera per il Papa, accostarsi alla Confessione e alla Comunione. Non tutti però possono andare a Roma. Nella nostra Arcidiocesi si può celebrare il Giubileo visitando diverse chiese giubilari, tra le quali la nostra cattedrale. Cos’è l’indulgenza plenaria? È la remissione della pena temporale dovuta per i peccati già perdonati. Praticamente è un segno della comunione dei Santi i cui meriti formano il patrimonio spirituale della chiesa. I loro meriti, ottenuti con la loro vita, ci aiutano oggi e domani poiché noi apparteniamo al corpo misterioso di Cristo, che è il nostro Capo e noi siamo le sue membra. Grazie a Lui ogni opera buona di ciascuno torna a vantaggio di tutti.
Il Giubileo ha origine ebraica. Un anno giubilare era fissato ogni cinquant’anni e la tradizione ebraica voleva che la terra non venisse lavorata per tutto l’anno perché potesse riposare e rendesse poi le coltivazioni più forti. Agli schiavi veniva donata la libertà. L’inizio di questa festività veniva annunciato dal suono di un corno di montone (jobel in ebraico). Un anno giubilare viene comunemente detto “Anno Santo” non solo perché comincia, si svolge e si conclude con solenni riti sacri, ma anche perché è destinato a promuovere la santità della vita. Il Giubileo adesso viene celebrato ogni 25 anni e questa periodicità permane tuttora. In questo modo, ogni generazione può vivere un Anno santo. Nei prossimi numeri proporremo qualche riflessione sul tema di questo Giubileo: “La speranza non delude”.
Matteo Carota
GIUBILEO NELLA COLLABORAZIONE PASTORALE DI UDINE-CENTRO
Il Consiglio della CP Udine-centro (Parrocchie: S. Maria Annunziata, S. Giorgio maggiore, B.V. delle Grazie, SS. Redentore, S. Quirino) nell’incontro del 10 gennaio ha indicato tre momenti di preghiera per vivere il Giubileo insieme nelle nostre cinque parrocchie.
Giovedì 13 marzo ore 18.30: Le famiglie con i fanciulli del catechismo sono invitati al Santuario della Madonna delle Grazie. Piccola processione aux flambeaux dalla cappella delle confessioni alla Basilica percorrendo il chiostro interno.
Giovedì 10 aprile ore 18.30: Tutti sono invitati presso la Cattedrale. Processione dal Battistero alla Cattedrale con le candele accese.
Domenica 25 maggio: Tutti sono invitati al pellegrinaggio al Santuario di S. Antonio a Gemona del Friuli. Chi desidera potrà compiere un tratto di cammino a piedi.
Attenzione: Alcune notizie più precise in merito verranno comunicate in seguito. Alcune iniziative riguarderanno soltanto la nostra parrocchia oppure il Vicariato
L’APERTURA DEL GIUBILEO SI E’ SVOLTA
A ROMA – BASILICA DI S. PIETRO
24 dicembre Vigilia del Santo Natale
A UDINE – IN CATTEDRALE
29 dicembre ore 16.00 Domenica della Santa Famiglia
Processione: Oratorio della Purità, via dei Calzolai, via Savorgnana, via Stringher, Cattedrale
Celebrazione Santa Messa, presieduta dall’Arcivescovo
Preghiera del Giubileo
Padre che sei nei cieli,
la fede che ci hai donato nel
tuo figlio Gesù Cristo, nostro fratello,
e la fiamma di carità
effusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo,
ridestino in noi, la beata speranza
per l’avvento del tuo Regno.
La tua grazia ci trasformi
in coltivatori operosi dei semi evangelici
che lievitino l’umanità e il cosmo,
nell’attesa fiduciosa
dei cieli nuovi e della terra nuova,
quando vinte le potenze del Male,
si manifesterà per sempre la tua gloria.
La grazia del Giubileo
ravvivi in noi Pellegrini di Speranza,
l’anelito verso i beni celesti
e riversi sul mondo intero
la gioia e la pace
del nostro Redentore.
A te Dio benedetto in eterno
sia lode e gloria nei secoli.
Amen
Uno spazio di speranza per la comunità di San Martín
Vogliamo aiutare la Diocesi di San Martín, nella periferia di Buenos Aires, capitale dell’Argentina, nella ricostruzione della Cappella Nuestra Señora del Pilar: uno spazio che sarà punto di riferimento per la comunità, centro di ascolto, luogo di carità e per la celebrazione della liturgia.
Le offerte si depongono nella cassetta: “Un pane per amor di Dio”.
“DA CUORE A CUORE”
Quaresima e Pasqua: Via Crucis – Via Lucis
“Dio, essendo sommo bene, non permetterebbe in alcun modo l’esistenza del male nelle sue opere se non fosse capace di trarre il bene anche dal male.” (De Civitate Dei XII, 26)
Sant’Agostino ci offre, in questa breve frase, un pensiero capace di trasformare la nostra visione delle difficoltà: il male che incontriamo nella vita non è sempre una condanna, né un incidente di percorso, ma può diventare una scuola, una lezione divina nascosta, un’occasione di crescita. Ma come possiamo crederlo quando siamo immersi nella sofferenza? Come vedere un disegno di bene in ciò che appare come rovina e dolore? È difficile dare consigli, ma può essere d’aiuto guardare alcuni esempi.
La pedagogia di Dio nella prova
La Sacra Scrittura ci introduce in questa prospettiva con la storia di Giuseppe, il figlio di Giacobbe. Il suo cammino sembra segnato dall’ingiustizia: tradito dai fratelli, venduto come schiavo, gettato in prigione per una colpa non sua. Eppure, quando il cerchio si chiude, egli stesso riconosce che tutto ciò è servito a un bene più grande: “Voi avete pensato il male contro di me, ma Dio lo ha pensato in bene” (Gen. 50,20). Non è questa la dinamica stessa della Croce? Anche i discepoli di Emmaus, dopo la Passione, si disperano vedendo solo fallimento. Ma quando il Risorto si fa loro compagno di strada e “spiega loro le Scritture” (Lc 24,27), allora comprendono: il male subito non era una sconfitta, ma il passaggio necessario per la vittoria della Resurrezione. Anche Paolo ha sperimentato questa pedagogia divina. Egli, uomo di azione, forte e instancabile, si ritrova a dover convivere con quella misteriosa “spina nella carne” che chiede tre volte al Signore di rimuovere. La risposta di Dio lo spiazza: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor. 12,9). Qui c’è una lezione: non è la prova a essere tolta, ma l’uomo a essere trasformato nel modo di viverla. Paolo impara a vedere nella sua fragilità non un ostacolo, ma lo spazio attraverso cui Dio può operare.
Questa logica percorre la vita dei santi.
Francesco d’Assisi, dopo essere stato ferito e imprigionato, vede crollare tutti i suoi sogni di gloria mondana. Ma è proprio in quel momento, nella frattura delle sue certezze, che si apre un nuovo orizzonte: la sua vocazione nasce dalla sua sconfitta. Anche Teresa di Lisieux, segnata dalla malattia e dal senso di impotenza, impara che non è necessario compiere grandi imprese per amare Dio, ma che si può fare della fragilità stessa un’offerta: “Tutto è grazia!”, dirà in punto di morte. E come non ricordare Edith Stein, che nelle tenebre della persecuzione nazista riconosce una chiamata a condividere la croce del suo popolo?
Figure straordinarie
Se volgiamo lo sguardo alla storia, troviamo figure straordinarie che hanno saputo affrontare il dolore con dignità, trasformando la sofferenza in testimonianza di bene. Pensiamo a Viktor Frankl, psichiatra ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento, che nel suo libro “Uno psicologo nei lager” racconta come, anche nel mezzo della disumanizzazione, l’uomo possa conservare la sua serenità interiore. Scrive: “Tutto può essere tolto a un uomo, tranne una cosa: l’ultima delle libertà rimane, scegliere il proprio atteggiamento in ogni determinata situazione, scegliere la propria via.” E fu proprio questa libertà interiore che gli permise di resistere, trovando un senso persino nell’orrore. Un altro esempio straordinario è quello di Chiara Corbella Petrillo, una giovane donna italiana che affrontò la malattia terminale con una serenità disarmante. Dopo aver perso due figli alla nascita, si trovò a lottare contro un tumore che avrebbe potuto essere curato, ma che scelse di non trattare subito per proteggere la vita del bambino che portava in grembo. Fino alla fine, mantenne uno sguardo di speranza e di amore per la vita, tanto da dire: “Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati. Ogni giorno.” La sua storia, testimoniata dagli scritti e dalle parole di chi le fu vicino, continua a ispirare molte persone.
La grande letteratura, a suo modo, ha sempre intuito questa verità.
Dostoevskij, ne “I fratelli Karamazov”, ci mostra come la sofferenza possa essere il crocevia della conversione. Il giovane Alioscia, colpito dalla morte del suo maestro, lo starec Zosima, e sconvolto dagli eventi che travolgono la sua famiglia, potrebbe lasciarsi trascinare dal dolore e dal dubbio. Ma è proprio in quel momento di crisi che matura in lui la decisione di abbracciare fino in fondo la vita evangelica, scegliendo di restare accanto agli ultimi e ai peccatori. Dostoevskij ci suggerisce che non è l’assenza della sofferenza a generare uomini forti, ma la capacità di darle un senso. Shakespeare, nel “Re Lear”, dipinge un dramma simile. Il vecchio re, cieco di orgoglio, viene tradito dalle figlie a cui aveva donato il regno, mentre l’unica che lo ama davvero viene scacciata. È solo nel momento della rovina totale, quando Lear vaga nudo nella tempesta, privato di tutto, che arriva alla vera conoscenza di sé. La sofferenza lo ha reso umile, lo ha purificato dal suo egoismo, gli ha insegnato la compassione per chi soffre. Per questo, sul finale, può dire: “Sono un uomo più forte di prima.” Se ci fidiamo di Sant’Agostino, ci convinciamo che persino nel male esiste una lezione per il nostro bene, allora la domanda non è più: “Perché questa prova?”, ma: “Cosa vuoi insegnarmi attraverso di essa?”. La sofferenza non è un enigma da risolvere, ma un mistero da abitare. E se oggi non ne comprendiamo il senso, domani, voltandoci indietro, osserveremo che Dio non spreca nulla, nemmeno le nostre ferite.
Francesco Palazzolo
Parrocchia di S. Maria Annunziata
Piazza del Duomo
33100 Udine (UD)
SEGRETERIA PARROCCHIALE
33100 Udine (UD)
Aperta dal lunedì al venerdì
dalle ore 10:00 alle ore 12:00
Tel. centralino: +39 0432 505302
Email (entro 24h): info@cattedraleudine.it
C.F.: 80010240309