“Cammina, uomo, e camminando ama; perché amando corri, e corri per amare. Qui è la fatica, là è il riposo, ma cammina senza pigrizia, perché non si raffreddi il tuo amore.”

(Sant’Agostino, Sermo 169, 18)

Domenica scorsa si è tenuto il pellegrinaggio al Santuario di Sant’Antonio. Il cammino votivo ricorda a tutti che, poiché la vita in sé non ammette stasi, a maggior ragione la vita cristiana è un progressivo avanzare nella fede. Sant’Agostino nel Sermo 169 invita ogni credente a non fermarsi mai nel suo cammino spirituale. Dice che l’uomo è fatto per tendere a qualcosa più grande di lui. Questa tensione è già scritta dentro di noi: siamo pellegrini, non residenti; viandanti, non padroni. Ma il tempo passa, e passando ci impone il movimento; qualche volta subiamo gli eventi, ci facciamo trascinare sperando che sia proprio il mutamento delle cose a risolvere certi problemi. Don Luciano ci ricorda un suo colloquio: “È inutile che tu cerchi il senso della vita solo camminando. Sarai deluso. Resterai sempre in compagnia dei tuoi limiti, perché li porti con te. Il senso della vita sta fuori di te, non è nell’orizzonte terreno, eppure lo si vive qui sulla terra” (Buenas Tardes, p. 89). Sant’Agostino andava avanti dicendo: “Chi corre bene non guarda dove mette i piedi, ma dove sta la meta” (Sermo 256, 5). Dove si va? Come ci si arriva? Ma verso dove si cammina? Per noi cristiani la risposta non è difficile; il problema, semmai, è che rispondere è la parte più semplice. In una predica sul Salmo 84, il vescovo d’Ippona afferma che l’uomo felice è colui che porta dentro di sé il desiderio di salire, di ascendere, non di restare fermo. Il cristiano deve mettere in conto le salite, le fatiche, gli sforzi, perché il cammino che conta non è quello orizzontale, ma quello verticale: si sale verso Dio, si cresce nella carità, si avanza nella fede. E la locomotiva? Noi con le nostre forze possiamo fare ben poco. Nella riflessione agostiniana ciò che ci muove è l’amore. Non basta quindi il camminare, non si arriverà molto lontano: bisogna sapere da cosa si è mossi e verso cosa ci si dirige.

Tutto l’uomo è mosso da ciò che ama

Agostino spiega che tutto l’uomo è mosso da ciò che ama.

Se ami il denaro, ti muoverai verso di esso; se ami l’onore, andrai in quella direzione; se ami Dio, il tuo cammino sarà verso di Lui. La direzione del nostro cammino è tracciata non tanto dai nostri pensieri o progetti, ma dai nostri affetti più profondi. Ecco perché, nel Sermo 169, Agostino non si limita a dire “cammina”, ma insiste: cammina amando, corri per amare, un circolo virtuoso che alimenta l’intensità interiore. Un pericolo serio, ci ricorda Agostino, è quello di smettere di camminare. Non perché ci opponiamo attivamente a Dio, ma perché ci raffreddiamo, ci adagiamo, diventiamo tiepidi. L’accidia – questa tristezza spirituale che ci fa perdere gusto per le cose di Dio – è uno dei nemici più subdoli. Non ci ferma subito: ci rallenta, ci appesantisce, ci fa sedere ai bordi della strada. Agostino ci ammonisce: attenzione a non scivolare dal riposo all’arresto definitivo. Così come il pellegrinaggio di domenica scorsa è stato un evento comunitario, ci conforta sapere che cammino cristiano non è mai solo individuale. Agostino ha una profonda visione ecclesiale: siamo tutti membra di un solo corpo, e camminiamo insieme. Non si cresce da soli, non si arriva a Dio da isolati. La Chiesa è il popolo in cammino, è la carovana dei pellegrini che avanzano sostenendosi a vicenda. Quando uno cade, l’altro lo rialza e se uno si smarrisce, l’altro lo richiama. Per Agostino, la vita cristiana è una continua ascesa, una lotta contro la legge del minimo sforzo. Non basta dire “sto bene così”, non basta mantenere una abitudine religiosa o evitare i grandi peccati. Bisogna crescere, avanzare, salire, perché chi smette di salire smette anche di vivere. In questo, Agostino è maestro di realismo spirituale: ci invita a guardare in faccia la nostra condizione, a riconoscere la necessità del progresso, a non illuderci di poter restare fermi.

Petrarca e l’ascesa al Monte Ventoso

Se vogliamo trovare nella letteratura una eco quasi perfetto della visione agostiniana del cammino, non possiamo non guardare a Francesco Petrarca e alla sua celebre lettera Ascesa al Monte Ventoso (Epistolae familiares IV,1), scritta nel 1336 e indirizzata a Dionigi di Borgo San Sepolcro. Petrarca racconta un’esperienza reale: la scalata, insieme al fratello, del monte Ventoso, in Provenza. Ma subito chiarisce al lettore che questa scalata è una metafora della sua vita interiore. Giunto in cima, contempla il panorama e, preso dall’ispirazione, apre a caso il libro delle Confessioni di Agostino, trovando un passo che gli parla direttamente: “E gli uomini vanno a contemplare le cime dei monti, le grandi onde del mare, il vasto corso dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso delle stelle, e trascurano se stessi.” (Confessiones, X, 8) Questo momento è per Petrarca uno spartiacque: si accorge che, fino a quel momento, ha guardato più fuori di sé che dentro di sé; ha cercato la bellezza, la gloria, l’elevazione, ma non ha ancora compiuto il cammino più difficile, quello dell’anima. L’ascesa al Monte Ventoso diventa quindi figura dell’ascesa spirituale. La fatica fisica, i sentieri tortuosi, i momenti di scoraggiamento, i ripensamenti lungo la strada, tutto questo è immagine della sua vita interiore. Lui stesso racconta che, più volte durante la scalata, aveva scelto il sentiero più facile e largo, salvo poi accorgersi che lo portava fuori strada. Questo dettaglio, apparentemente banale, è una allegoria morale: chi cerca la via più comoda finisce per allontanarsi dalla meta. Il paragone con Agostino non è casuale. Petrarca legge Agostino non solo come un padre della Chiesa, ma come un maestro di vita, un compagno di cammino. Le Confessioni diventano per lui lo specchio in cui guardarsi, vi si appoggia per leggere la propria esperienza. Ecco perché la scalata fisica culmina in un momento di introspezione: Petrarca comprende che la vera altezza non è quella dei monti, ma quella del cuore elevato a Dio. Scrive, infatti, alla fine della lettera: “Allora, pieno di stupore, mi fermai. Chiusi il libro, sdegnoso ormai delle cose terrene, e mi rivolsi a me stesso. Da quel giorno in poi, nessuno mi sentì più parlare di montagne.” Non è che Petrarca faccia una battuta, o rinneghi la bellezza della natura; capisce che Le tante montagne che aveva sognato di scalare, le tante ambizioni della vita, viste come cime da doppiare, ora contano poco. Come per Agostino, il cuore inquieto non trova pace nell’altezza del mondo, ma solo nell’altezza di Dio.  

Francesco Palazzolo

“DA CUORE A CUORE”

“La forza dell’abitudine mi trascinava con sé, e mi diceva: ‘Pensi forse di potermi abbandonare?’”

(Sant’Agostino, Confessioni, VIII, 5, 10)

Nella vicenda umana della conversione di sant’Agostino si cela un dramma interiore di straordinaria intensità, una lotta minuziosamente descritta. Come ha ricordato Papa Giovanni Paolo I nella sua Udienza Generale del 13 settembre 1978, Agostino stesso racconta il suo cammino di fede come un viaggio tormentato, quasi un convulso agitarsi dell’anima: “Di qua, Dio che lo chiama e insiste, e di là le antiche abitudini, “vecchie amiche – scrive lui – e mi tiravano dolcemente per il mio vestito di carne e mi dicevano: ‘Agostino, come?!, tu ci abbandoni? Guarda che tu non potrai più far questo, non potrai più far quell’altro e per sempre!’”. Questo contrasto tra l’affermarsi della vocazione e il peso dell’abitudine è emblematico di quell’“abitudo” che troppo tardi si riconosce dannosa, che imprigiona con la sua forza apparentemente lieve. Giovanni Paolo I prosegue con un’immagine familiare e semplice, ma di profonda efficacia pedagogica: “Mi trovavo – dice – nello stato di uno che è a letto, al mattino”. Gli dicono: ‘Fuori, Agostino, alzati!’. Lui invece, diceva: ‘Sì, ma più tardi, ancora un pochino!’. “Finalmente il Signore mi ha dato uno strattone, sono andato fuori”. Ecco, non bisogna dire: Sì, ma; sì, ma più tardi. Bisogna dire: Signore, sì! Subito! Questa è la fede. Rispondere con generosità al Signore. Ma chi è che dice questo sì? Chi è umile e si fida di Dio completamente!”.

Le catene invisibili

Nel mondo moderno abbiamo affinato le tecniche per spezzare le dipendenze fisiche, abbiamo nomi e trattamenti per ogni patologia del desiderio. Ma conosciamo meno le abitudini morali, quelle che non hanno sintomi esteriori. Viviamo dentro abitudini di pensiero, abitudini di giudizio, abitudini di pigrizia spirituale. Ci abituiamo a parlare male, a pensare il peggio, ad aspettarci poco dagli altri e da Dio. Queste predisposizioni sono dei paraocchi, o peggio, delle pesanti catene. Dickens, nel Canto di Natale, condensa: “Le catene dell’abitudine sono troppo leggere per essere sentite, finché non diventano troppo pesanti per essere spezzate.” Una verità che Agostino avrebbe sottoscritto parola per parola. Le abitudini iniziano come scelte volontarie, poi diventano automatismi e infine si fanno identità. Non si sa più distinguere ciò che si è scelto da ciò che si è semplicemente ereditato da se stessi. È il punto in cui il male non viene più percepito come tale, ma come inevitabile. Il risveglio dell’anima – Canto di Natale di Dickens Nel Canto di Natale di Charles Dickens, l’avaro Scrooge è un uomo prigioniero non del male, ma dell’abitudine al proprio egoismo. Tutta la sua vita si è costruita sull’accumulo, sul controllo, sull’efficienza arida. Talmente è trincerato in questo suo comportamento che non è bastata la vista di uno spirito, ne sono serviti quattro!

La sua conversione, come quella di Agostino, non è istantanea. È preparata da un processo e tra tutte le apparizioni, quella più incisiva non è Marley, il Passato o il Presente, ma il Futuro. Lo Spirito del futuro non parla, non tenta di convincerlo ma gli mostra come sarà l’avvenire. E in quella muta visione, Scrooge si vede defunto, dimenticato, deriso. Nessuno lo compiange. Gli oggetti della sua casa sono venduti per pochi spiccioli da domestici senza nome; è il volto più duro dell’indifferenza. E lì, in quel silenzio, l’uomo sente per la prima volta la voce della coscienza. Dickens scrive con precisione: “L’uomo a cui apparteneva quel letto non era stato amato in vita, e non sarebbe stato rimpianto in morte.” Scrooge trema. E per la prima volta chiede: “Sono queste le ombre di ciò che accadrà, o solo di ciò che può accadere?”, ci fa un pensierino! Sa che quel futuro è una possibilità e nasce in lui l’idea di poter evitare quell’esito. E grida, come Agostino: “Voglio essere diverso!” La grazia, nel linguaggio di Dickens, passa per l’immaginazione, ma il miracolo non è minore: l’uomo si sveglia nuovo.

Le manifestazioni concrete

Ciò che rende potente questa scena non è il cambiamento in sé, ma la conversione delle abitudini. Scrooge non diventa un santo astratto. Si alza al mattino e inizia a vivere diversamente. Inizia a fare ciò che non aveva mai fatto: ascolta, dona, si lascia toccare. La sua redenzione non è uno stato d’animo, ma una serie di nuovi gesti. L’abitudine al possesso viene rotta dall’abitudine alla generosità. Scrooge non è un uomo redento perché si sente meglio: lo è perché inizia ad agire in modo nuovo. Il vero miracolo è questo: che l’anima si lasci plasmare da nuove scelte, e che queste, ripetute, diventino nuove abitudini. Perché l’uomo non può vivere senza abitudini. Ma può scegliere quali coltivare. Ecco perché la redenzione cristiana è un cammino. Un’aggiunta quotidiana di bene. La tradizione monastica ha sempre saputo che la vera libertà non è fare ogni giorno qualcosa di diverso, ma imparare a fare ogni giorno lo stesso bene con fedeltà nuova. Agostino comprese che l’abitudine non si può lasciare se non con uno strappo. E che quello strappo, per non lacerare l’anima, ha bisogno di un’altra forza: la grazia di Dio. Non si tratta di sforzarsi di essere migliori. Si tratta di lasciarsi riplasmare da Colui che ha fatto nuove tutte le cose.  

Francesco Palazzolo

“Viviamo bene, e i tempi saranno buoni; noi siamo i tempi”

(Sant’Agostino, Discorso 311)

È una frase tratta dal Discorso 311 di sant’Agostino, uno degli autori che più profondamente hanno formato l’intelligenza e la spiritualità del nuovo vescovo di Roma. La citazione, usata nella udienza ai giornalisti lunedì scorso, non è stata un semplice omaggio colto, ma la manifestazione iniziale di una linea di pensiero che sarà verosimilmente centrale nel suo magistero. È stato provvidenziale l’aver qui dedicato, negli ultimi mesi, degli approfondimenti sul pensiero agostiniano. Essi sono stati, senza volerlo, una preparazione a meglio accogliere il pontificato nascente. Le parole di Agostino, già di per sé cariche di forza teologica e antropologica, assumono ora anche il valore di una sintonia con ciò che il nuovo papa si appresta a trasmettere con i suoi gesti e le sue scelte. Vale la pena dunque commentare questa massima antica quale anche strumento per entrare, con maggiore consapevolezza, nella visione cristiana del tempo e della responsabilità. Vivere bene, dice Agostino, non è uno sforzo privato o un affare interiore. È un modo di abitare il tempo, di attraversarlo lasciando in esso impronte di giustizia, di misericordia, di sapienza. E in questo senso, i tempi non sono entità autonome, quasi forze cieche della storia, ma specchi di ciò che gli uomini vi proiettano. La sfiducia che spesso circonda il nostro sguardo – verso la politica, la tecnologia, etc. – nasce da questa tentazione: credere che i tempi siano un destino e non una responsabilità.

Feynman e il rischio della conoscenza senza giudizio Un’applicazione particolarmente feconda della distinzione tra “vivere bene” e il mero “funzionare bene” si trova in un ambito che sembra, a prima vista, neutro rispetto alle valutazioni morali: la scienza. Eppure, proprio qui la riflessione è decisiva. Uno degli scienziati che meglio ha chiarito la posta in gioco è Richard Feynman, fisico teorico statunitense e premio Nobel per la fisica nel 1965. In più occasioni – a partire dalle sue lezioni universitarie (“Il Senso delle Cose”) fino ai suoi interventi pubblici dopo la guerra – Feynman ha insistito su una differenza spesso trascurata ma essenziale: quella tra scienza e tecnica. Per lui, scienza è un metodo di conoscenza. È fondata sull’osservazione sperimentale, sull’ipotesi verificabile, sulla ripetibilità. Essa mira alla comprensione delle leggi che regolano la natura, in una prospettiva aperta, autocritica, spesso provvisoria. La tecnica, al contrario, è l’applicazione della conoscenza scientifica per ottenere risultati pratici: costruire, modificare, intervenire. La distinzione non è solo formale. Per Feynman, ciò che la scienza può dire è “come funziona il mondo”; la tecnica risponde invece alla domanda: “come possiamo usare ciò che abbiamo capito”. Il problema, osservava, emerge quando si confondono questi due livelli: quando si crede che comprendere come fare qualcosa coincida con sapere se sia giusto farla. Feynman lavorò al Progetto Manhattan, partecipando allo sviluppo delle armi nucleari, e nel secondo dopoguerra riconobbe che la conoscenza acquisita non implicava, di per sé, alcuna direzione etica. La fisica nucleare aveva raggiunto un punto di maturità tale da permettere la fissione controllata, ma la scelta di utilizzare tale processo per fini militari fu di natura politica, non scientifica. Questo scarto tra conoscenza e responsabilità si è ampliato nel tempo. La tecnica, diventata autonoma rispetto alla scienza e persino rispetto all’etica, tende oggi a generare un’accelerazione che talvolta precede la possibilità di valutarne criticamente le implicazioni. Biotecnologie, intelligenza artificiale, neuroenhancement, manipolazione genetica: tutti ambiti in cui la domanda “possiamo farlo?” ha bisogno di essere affiancata – e talora arginata – dalla domanda più fondamentale: “è bene farlo?”. In questo contesto, la citazione agostiniana assume una portata epistemologica (cioè delle vie del conoscere): “Viviamo bene, e i tempi saranno buoni; noi siamo i tempi.” Il sapere, in sé, non genera tempi buoni. Può essere strumento di bene o di dominio, di progresso o di disumanizzazione. Sono gli uomini che ne dispongono a renderlo fruttuoso o distruttivo. In un sistema educativo, questa consapevolez-za implica che la formazione scientifica (specialmente ai livelli accademici) non può essere dissociata dalla formazione etica. Un curriculum che trasmetta solo la logica interna delle discipline, senza collocarle in un quadro di senso più ampio, rischia di generare competenze operative prive di orientamento. Feynman non era un pensatore morale in senso stretto. Ma la sua insistenza sul dubbio metodico, sulla trasparenza intellettuale e sul dovere di non auto-ingannarsi è, in effetti, un’etica implicita. La scienza diventa un luogo di verità solo quando è esercitata con integrità. L’uomo tecnico, diceva, rischia di ingannarsi più facilmente dell’uomo ignorante, perché dispone di strumenti più potenti per auto-confermare le proprie ipotesi. Per questo, la responsabilità dell’uomo formato scientificamente è maggiore: potere senza discernimento non rende i tempi buoni, li espone a squilibri più raffinati e meno visibili.

Non esistono “tempi buoni” senza uomini giusti Sant’Agostino, nella sua Città di Dio, osservava che ciò che distingue la città degli uomini da quella di Dio non sono i beni esteriori, ma l’amore che le muove. Dove l’amore è ordinato – verso Dio, verso l’altro, verso la verità – il tempo si fa propizio. Dove invece domina l’amor sui, il culto di sé, anche le condizioni migliori producono miseria. Ecco perché la frase del Papa, riprendendo Agostino, non è solo una citazione felice. È un manifesto. È un appello alla responsabilità personale, all’educazione profonda, alla maturazione interiore. È anche una correzione gentile al fatalismo del nostro tempo, alla tendenza a delegare al potere, alla tecnica, al futuro ciò che solo ciascuno può scegliere: vivere bene. In fondo, «noi siamo i tempi» significa anche questo: nessuna stagione della storia è perduta, se qualcuno decide di viverla con giustizia. E nessuna riforma della società sarà mai stabile, se non affonda nella riforma delle coscienze, delle abitudini. È da qui che si comincia, individualmente, si comprende perché, anche nei momenti più oscuri, la speranza cristiana non è evasione, ma radicamento. Perché essa si alimenta non dei segni dei tempi, ma della possibilità – sempre aperta – di vivere bene.                                                              

Francesco Palazzolo

“DA CUORE A CUORE”

«Tardi ti amai, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti amai»

(Confessiones X, 27, 38)

Dio è più intimo a noi di noi stessi

L’esperienza cristiana, quando è autentica, è sempre riconoscimento. Non si inventa, non si costruisce con le sole forze dell’intelletto o dell’affetto: si scopre. In questa tensione tra l’apparente iniziativa dell’uomo e la reale primazia di Dio, si iscrive l’intera vicenda di Agostino. La sua formula — “tardi ti amai” — non è solo biografica: è universale. Esprime con precisione il cammino dell’uomo moderno, la cui intelligenza è spesso inquieta, dispersa tra molte domande, ma che non trova pace finché non torna all’origine. Agostino ha messo a tema: Dio è più intimo a noi di noi stessi. “Interius intimo meo et superior summo meo” scrive: Egli è più dentro di ciò che io percepisco come mio, e al tempo stesso è al di sopra di ciò che io posso concepire come più alto. Questa duplice verità — l’interiorità assoluta e la trascendenza assoluta di Dio — impedisce ogni riduzione del mistero divino a pura proiezione psicologica, ma salva anche l’uomo dalla tentazione opposta: quella di pensare Dio come totalmente altro, disinteressato alla sua storia. Agostino mostra che Dio è contemporaneamente immanente e trascendente, e proprio questa compresenza fonda la possibilità della relazione personale. Nel suo itinerario intellettuale, Agostino ha percorso molte strade. Cercava Dio nella bellezza delle creature, nell’armonia dei numeri, nella sapienza dei filosofi, ma sempre come attraverso uno specchio. Solo quando ha capito che la verità non è un’idea, ma una Persona, allora ha trovato il sentiero soddisfacente. In questo passaggio dalla filosofia alla fede, si gioca una delle conquiste più alte del pensiero cristiano. Non si tratta di abbandonare la ragione, ma di purificarla. Agostino non ha mai disprezzato la filosofia; ha invece mostrato che la sua piena fioritura si dà solo nella carità, perché “nessuno entra nella verità se non attraverso l’amore”.

Salvezza nel pensiero Agostino

Il cuore dell’antropologia agostiniana è la consapevolezza che l’uomo è un essere ferito, e che questa ferita non può essere sanata da alcuna potenza umana. “La mia ferita era profonda, e nessuno poteva guarirla se non Colui che ha fatto me”. Il peccato non è solo una trasgressione morale, è una frattura Di sé stessi, una perdita di direzione. Agostino ha colto che l’uomo, se lasciato ai propri mezzi, si curva su di sé (“incurvatus in sé”) e perde ogni spazio di manovra, perde la libertà. È solo mediante la grazia che può rialzarsi, raddrizzarsi, e guardare di nuovo in alto. Per questo motivo, l’intero edificio della vita cristiana è fondato sulla grazia.

Resta da chiarire, che la grazia non distrugge la libertà. Essa la precede, la sostiene, la rende possibile. Agostino ha insistito con forza sulla priorità dell’azione divina, ma ha anche custodito la responsabilità dell’uomo. In un mondo (il suo come il nostro) che oscilla tra fatalismo e volontarismo, la sua visione mantiene l’equilibrio: Dio opera tutto, ma non senza di noi. L’iniziativa è di Dio, ma l’uomo è chiamato a rispondere. “Colui che ti ha creato senza di te, non ti salva senza di te”. Nel pensiero agostiniano la Chiesa occupa un posto centrale: “comunità spirituale e Corpo stesso di Cristo”. “Con voi sono cristiano, per voi sono vescovo”, scrive Agostino, sintetizzando l’identità del pastore. Per lui la Chiesa è madre e maestra, grembo e guida. Essa è sempre in cammino verso la purificazione, ma mai privata della presenza salvifica di Cristo. La sua autorità non deriva dagli uomini, ma dalla verità che essa custodisce.

Il tempo, luogo della rivelazione

Il tempo, infine, è una categoria centrale nella riflessione agostiniana. A differenza delle concezioni cicliche del mondo antico, Agostino ha compreso il tempo come dramma, come attesa, come storia della salvezza. Il tempo è il luogo in cui Dio agisce. E il cuore umano, inquieto finché non riposa in Dio, si muove dentro questo tempo come un viandante che cerca la patria. Il passato è memoria, il futuro è attesa, il presente invece chiede attenzione: è qui che Dio parla, qui che si gioca la salvezza. “Tardi ti amai”: ma anche se tardi, l’amore resta amore. Non importa l’ora dell’arrivo, ma la sincerità del cuore. Agostino non ha teorizzato una filosofia, ha indicato a modo suo la via di Cristo, “la bellezza tanto antica e tanto nuova”. La sua unicità sta nell’averlo fatto da uomo trasformato, da peccatore perdonato, da pellegrino incamminato. La via che ha indicato agli altri l’ha percorsa per primo, con lacrime, con fatiche, con domande e silenzi. Specialmente al suo tempo, molti cercavano la salvezza nelle dottrine, nei culti segreti, nelle illusioni dell’intelligenza autosufficiente. Ha parlato a uomini tribolati: confusi da troppe parole e da troppi idoli, lacerati da guerre, instabili nelle convinzioni, assetati di verità ma schiavi dei desideri. Eppure, li ha amati e guidati come pastore, li ha serviti come fratello. Le sue omelie, le sue lettere, le sue Confessioni sono pagine vive, nate nel fuoco di una conversione. E ciò che valeva per i suoi giorni, vale anche per i nostri. Le inquietudini del cuore non sono mutate, se non nei loro travestimenti. Anche oggi l’uomo cerca, e si smarrisce, anche oggi occorre una parola vissuta e abitata.

Francesco Palazzolo

“DA CUORE A CUORE”

“Ci hai fatti per Te, e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in Te”

(Sant’Agostino, Confessiones, I,1)

Il cuore inquieto dell’uomo moderno

«Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te». Con queste parole, più che aprire le sue Confessiones, sant’Agostino apre un varco nel cuore dell’uomo di ogni tempo. La confessione dell’uomo antico diventa la diagnosi profetica dell’uomo moderno: inquieto, errante, saturo di parole e vuoto di senso. Non vi è frase che abbia riassunto con altrettanta potenza la condizione esistenziale dell’uomo: creato da Dio e per Dio, e perciò stesso incapace di pace finché non torna a Lui. La modernità, nella sua febbrile ricerca di autonomia, ha tentato ogni via per tacitare questa inquietudine: la scienza, il piacere, il potere, l’arte, la tecnica… Ma nulla ha potuto colmare quel vuoto che non è solo emotivo, ma ontologico. L’uomo, diceva Pascal, è un essere che «cerca con angoscia» (Pensées, n. 148): cerca qualcosa che non sa nominare, ma che conosce intimamente. Perciò, come ha scritto Eliot, “l’uomo moderno ha perso il senso non solo di Dio, ma anche del proprio io”. La coscienza si è come prosciugata. Eppure — lo si voglia o no — quell’inquietudine resta. È una voce sommessa che, seppur coperta da mille distrazioni, non tace mai del tutto. Sant’Agostino, in questo, è il testimone del cuore che cerca, della ragione che interroga, della volontà che si dibatte tra due amori. E che scopre, infine, che c’è un solo luogo in cui il cuore può trovare pace: non in un’idea, non in un’ideologia, ma in una Presenza.

La nostalgia dell’Eterno

Ciò che l’uomo percepisce come disagio — quell’insofferenza che lo accompagna anche nei momenti di apparente successo — è in realtà un segno di elezione. È la nostalgia di Dio. Una nostalgia che, se coltivata nella preghiera e nella lettura del cuore, diventa via alla conversione.

Agostino stesso racconta nelle Confessioni il travaglio della sua ricerca, che passa attraverso i piaceri, la filosofia, le amicizie, l’ambizione. “Ero diventato per me stesso un grande enigma” (Confessiones, IV, 4, 9). E proprio nel momento di massima confusione, quando ogni sapienza umana sembrava infrangersi sul mistero del male, avviene l’incontro con la Scrittura, grazie a sant’Ambrogio, e con essa la rinascita dell’anima. La teologia dell’inquietudine di Agostino si oppone frontalmente alla cultura dell’anestesia spirituale. Oggi si cerca di spegnere ogni voce interiore con la distrazione continua, essere interiormente sradicati permette di trapiantarci con facilità. Agostino invece ci insegna a non avere paura del nostro vuoto, a non rifuggire la solitudine. «Torna in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità» (De vera religione, XXXIX, 72). L’inquietudine è una condizione temporanea, il suo scopo è scuoterci. A seguire è ciò che Agostino chiama conversione: un movimento della volontà illuminata dalla grazia. “Mi tenevo in sospeso tra la volontà di andare avanti e quella di restare indietro” (Confessiones, VIII, 11, 25). È il momento dello strappo, del pianto sotto il fico, del “tolle, lege”— prendi e leggi, è l’adesione, l’incontro con Cristo. Come dirà san Tommaso d’Aquino: «La nostra pace è Cristo stesso» (Summa Theologiae, III, q. 22, a. 1). Anche oggi Agostino ci ricorda che l’uomo non si salva da solo. La beatitudine non è un prodotto, ma una relazione. «Ci hai fatti per Te, e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in Te». Non è solo un’affermazione teologica, è un grido umano, una confessione universale. L’uomo è un mendicante d’infinito, e solo l’Infinito fatto carne – “Cristo, il Dio vicino” – può colmarlo. Sant’Agostino, con la forza del convertito e la profondità del sapiente, ci invita a non temere l’inquietudine, ma a leggerla come un segno, un sacramento del desiderio, una via che porta a casa.

Bellezza tanto antica, tanto nuova

Agostino chiama Dio bellezza. E lo fa in un tempo in cui la bellezza era ancora il termine supremo della filosofia e dell’arte. Ma qui la bellezza non è ornamento né armonia: “è pienezza dell’essere, splendore della verità, irradiazione del bene” secondo quella triade platonica che il cristianesimo ha fatto propria nella descrizione del Creatore. Dio è antico, perché non soggetto al tempo. È prima di ogni storia, prima di ogni desiderio, prima di ogni parola. «Prima che Abramo fosse, Io Sono» (Gv 8,58): è questa l’antichità divina, non cronologica ma ontologica, l’anteriorità dell’eterno” di cui parlava Hans Urs von Balthasar. Ma Dio è anche nuovo. Non nel senso che cambi, ma nel senso che si rinnova. Ogni volta che l’uomo lo incontra, Dio è come se fosse la prima volta. «Le sue misericordie non sono finite: si rinnovano ogni mattina» (Lam 3,22-23). Agostino aveva camminato a lungo tra le filosofie, e aveva cercato Dio come concetto. Ma quando lo ha trovato come presenza, lo ha visto come bellezza. E quella bellezza lo ha vinto. «Mi chiamasti e gridasti, e squarciasti la mia sordità; balenasti, risplendesti e mettesti in fuga la mia cecità» (Confessiones X, 27, 38). Ogni autentica conversione nasce da un’estetica dell’incontro. Non si inizia ad amare Dio perché lo si capisce, ma perché lo si vede. E lo si vede non con gli occhi del corpo, ma con quelli del cuore.                                                                                                

Francesco Palazzolo

DOMENICA DELLA DIVINA MISERICORDIA

“DA CUORE A CUORE”

“Dio non ci lascia soli, cammina con noi!”

È una delle fasi che il Santo Padre pronunciava spesso, agli Angelus, alle udienze; una promessa che ci solleva dal peso della solitudine e ci invita a camminare con il Signore, che non ci lascia mai. Tuttavia, oggi, mentre ci raccogliamo nel ricordo di Papa Francesco, non possiamo fare a meno di sperare che, così come il Signore ci accompagna, anche il nostro amato Papa continui a camminare accanto a ciascuno di noi. Anche nei momenti di più grande difficoltà, ci ha insegnato che la speranza non viene meno, che il cammino della vita, per quanto impervio, è sempre illuminato dalla luce di Cristo. Ogni sua parola, ogni suo gesto, ci ha accompagnato in un cammino di fede che oggi, nel dolore della sua perdita terrena, non vogliamo interrompere. La sua esortazione più frequente, quella che ci ha rivolto con il cuore aperto, era di pregare per lui. Un invito che ora assume una profondità nuova, mentre noi continuiamo a camminare affidandoci al suo esempio di vita e al suo amore per il Signore. Di Papa Francesco ognuno conserva qualche ricordo particolare.

Brillare, ascoltare, non temere

Per quanto mi riguarda, resterà indimenticabile l’omelia pronunciata la mattina del 6 agosto 2023, a Lisbona per la GMG, quando il Papa di fronte a noi giovani (eravamo un milione e mezzo) ha commentato la Trasfigurazione e ci ha consegnato tre verbi: brillare, ascoltare, non temere. “Il suo volto brillò come il sole” (Mt 17,2): con questa frase il Papa introduce il primo verbo. Egli insiste sul fatto che noi, Chiesa, brilliamo soltanto quando riflettiamo una presenza che non ci appartiene. Nella “Evangelii gaudium” ha scritto che la Chiesa è un “poliedro” che riflette la luce in molte facce; a Lisbona ha ricordato che il poliedro esiste solo se una sorgente lo illumina. Il secondo verbo, ascoltare, nasce dalla parola del Padre sul Tabor: “Questi è il Figlio mio, ascoltatelo”. Papa Francesco collega subito il primato dell’ascolto di Dio all’ascolto dei fratelli. Durante il Sinodo sulla sinodalità ha ripetuto che la prima riforma non tocca organigrammi ma orecchie: “Abbiamo due orecchie e una sola bocca perché dobbiamo ascoltare il doppio di quanto parliamo”. Quando ha incontrato i popoli amazzonici o le famiglie di Lampedusa ci ha mostrato un metodo: guardare, ascoltare, discernere, agire. Senza il passo dell’ascolto il discernimento diventa calcolo. Il terzo verbo, non temere, conclude l’omelia e, in parte, definisce lo stile decisionale del Papa. Non ha temuto di andare a Bangui quando la guerra civile infuriava, non ha temuto di scontentare i mercati parlando di ambiente, non ha temuto di fare tante modifiche pur sapendo che facendo ciò si incontravano opposizioni e si pagava un prezzo di solitudine. In “Fratelli tutti” afferma che la paura dell’altro diventa brodo di coltura per populismi e violenze. Nel dialogo con i giovani di Manila ha ammesso: “Non abbiate paura di piangere, perché un cuore che piange può accogliere”. Tutta la sua biografia mostra come il coraggio non coincida con l’eroismo muscolare: si tratta, piuttosto, di fiducia perseverante che il Vangelo non delude.

Non abbiate paura

Papa Francesco a Lisbona ripete più e più volte: “no tengan miedo – non abbiate paura”. Questo invito, che risuona tanto forte quanto il messaggio della Trasfigurazione, è un’esortazione che va ben oltre le parole. La paura ha tante forme, e oggi è un tema cruciale per il mondo: la paura della guerra, la paura della povertà, la paura delle differenze, la paura persino del futuro. Ma Francesco non temeva, anzi, invitava tutti a superare queste paure, per costruire una società di pace, accoglienza e speranza. A Lisbona, come in molte altre occasioni, ci chiedeva di affrontare la vita con il coraggio di chi crede in un amore che è più forte di ogni paura, di ogni minaccia. Il coraggio che ha caratterizzato la sua vita è, ora più che mai, evidente anche nel modo in cui ha affrontato la malattia negli ultimi mesi. Papa Francesco ha scelto di non nascondere la sofferenza, ma di viverla in modo trasparente. In un periodo in cui molti temono la vulnerabilità e l’invecchiamento, ha scelto di non fuggire dalle sue difficoltà fisiche, ma di affrontarle con serenità. La sua presenza in pubblico, anche quando la sua salute peggiorava, non era un atto di resistenza eroica ma una continua risposta alla chiamata evangelica a non temere. In “La Luce della Fede” scriveva: “La vita non è una ricerca di comodità, ma una chiamata a vivere ogni giorno con il cuore aperto”. Nonostante le difficoltà legate all’età e alle sue condizioni di salute, il Papa non ha mai smesso di viaggiare, incontrare le persone, parlare al mondo, offrendo una testimonianza unica di coraggio e speranza. La sua condizione di salute, infatti, è diventata simbolo di un’umanità che non teme la debolezza, ma la accoglie come parte integrante della sua forza interiore. Così, anche ora che Papa Francesco è tornato alla Casa del Padre, il suo esempio di coraggio ci parla ancora, ricordandoci che ogni sofferenza può essere un mezzo di redenzione, ogni prova un’occasione per illuminare il cammino degli altri.

Francesco Palazzolo

IL NOSTRO GIUBILEO

Un segnale potente. Il giorno del Lunedì dell’Angelo la comunità cristiana e internazionale sono state sconvolte dalla notizia della morte di Papa Francesco. Il suo pellegrinaggio terreno si è concluso nel tempo pasquale, quasi come a ricordare che la morte non è la fine, ma è un nuovo inizio. Molti fedeli considerano un segno molto potente la conclusione del cammino terreno del Santo Padre il giorno in cui la Chiesa tramanda la memoria del trionfo della vita sulla morte: è un richiamo alla verità della fede che lui stesso ha testimoniato con umiltà e coraggio. Con il suo pontificato ha segnato la storia della Chiesa con la sua particolare attenzione agli ultimi, la difesa dell’ambiente e la lotta a ogni forma di esclusione. La morte di Papa Francesco il giorno del Lunedì dell’Angelo sembra richiamare ancora una volta all’essenza del suo messaggio: la speranza oltre la sofferenza e la luce oltre il buio. Per giunta, è una conclusione di particolare impatto di un pontificato che ha sempre cercato di portare il Vangelo nella nostra vita quotidiana. Il papa l’ha portato nella propria in maniera particolare, cominciando dalla sua scelta inedita di assumere il nome del poverello di Assisi: Francesco.

Matteo Carota

Cari fedeli e amici,

“La speranza non delude” è il tema scelto dal Papa per questo giubileo. Molto opportunamente, visto il panorama mondiale, che preoccupa e mette ansia per le sue sorti e per le tensioni che conosciamo. Ma qual è la speranza che non delude? Che cosa possiamo sperare? Chi è il garante della nostra speranza? Sono domande che ci facciamo, per non illuderci. Riflettiamo in occasione di questa Pasqua per non cadere vittime di speranze vane, che non si realizzeranno, che non avranno successo, lasciandoci delusi perché ci eravamo illusi.

Innanzitutto ci sono delle malattie della speranza che ci possono attaccare e rovinare la vita nostra e degli altri. Facciamo qualche esempio: si spera di ricostruire il passato così come è stato, ci si aggrappa a ideologie ritenute come la soluzione di tutti i problemi, si spera di aver tutto, subito, soprattutto senza fatica ciò che è effimero ma sembra gratificante.

Ci sono le speranze e la speranza.

Ognuno di noi coltiva dei desideri nel suo cuore. Analizzando questo termine, sembra che derivi da “de-sideribus”, che venga dalle stelle, dal cielo, dall’alto. È una bella interpretazione, significativa. La speranza è una realtà, presente soltanto in parte, ma ci proietta verso il futuro, verso qualcosa che ha da venire nella sua totalità.  È la speranza che si vive nelle speranze di ogni giorno. Questo è umano, è vero. Infatti abbiamo la gioia di gustare frantumi di speranza vera, abbiamo la certezza che una speranza più grande si possa realizzare nella vita e che ci viene incontro. È già presente ma non ancora nella sia pienezza.

Forse dobbiamo fare la fatica di rimanere nella speranza e di conquistare il futuro. È un cammino che compiamo insieme nella vita. Non si tratta di una speranza a buon mercato, non lasciamoci prendere dalla vertigine dei consumi.

C’è una speranza seminata in noi, nel giorno del Battesimo. È Dio stesso che abita in noi, è Gesù seminato nelle zolle della terra, morto e risorto. In Lui crediamo, a Lui ci affidiamo. La nostra speranza è la fede che si distende nel tempo. È una presenza che ci abita, ci ama e ci precede. È Cristo stesso, morto e risorto, è personale e tende al sociale. Non possiamo far altro che testimoniare questa nostra relazione con Lui che si fa testimonianza. Tutto appare liquido ma Cristo è stabile. Tutto appare liquido, Cristo è stabile. A noi dimostrare la stabilità , aiutati dai segni sacramentali che ci danno la forza e l’impegno di trasformare il mondo.

Mons. Luciano Nobile, parroco

“DA CUORE A CUORE”

La fedeltà a se stessi

Non è vinto se non colui che abbandona se stesso” (Sant’Agostino, Enarrationes in Psalmos, 144,14)

La sconfitta, per il Vescovo d’Ippona, non è mai innanzitutto esterna, politica, militare o culturale. È un cedimento dell’interiorità. Solo quando un uomo rinuncia alla propria identità più profonda, quando abdica alla propria vocazione, si può dire davvero sconfitto. “Non si perde che ciò che si lascia perdere,” dirà secoli dopo Antoine de Saint-Exupéry, e in questa semplice affermazione è racchiusa tutta la forza dell’idea cristiana della resistenza spirituale. Agostino, nella sua infaticabile ricerca della verità, insiste nel richiamare l’uomo al centro del suo essere. “Noli foras ire, in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas” — “Non andare fuori, rientra in te stesso: nell’uomo interiore abita la verità.” È lì, nel cuore segreto dell’anima, che si combatte la vera battaglia. Ed è lì che si decide se resistere o cedere. Non c’è trincea più profonda dell’interiorità, nessun assalto esterno ha potere se non trova complicità nell’abbandono interiore. Ciò che non affrontiamo dentro di noi, prima o poi riemergerà, e spesso nei modi più inattesi. L’uomo può anche tentare di eludere la verità, ma essa non rinuncia mai a lui. A volte torna come un soffio lieve nella coscienza, altre come un richiamo insistente. La verità è cioè fedele, e non ci abbandona, nemmeno quando noi cerchiamo di abbandonarla. Le questioni irrisolte, le ferite mai guarite, le scelte, si ripresentano nel tempo a chiedere un bilancio di coerenza. Risuona la celebre battuta del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart: “Don Giovanni, a cenar teco m’invitasti, e son venuto.” Le nostre scelte, anche quelle non dichiarate, chiamano risposte. I pensieri accantonati, le responsabilità evitate, tornano come ospiti ineludibili che con insistenza domandano udienza. E in fondo, non c’è nulla di più liberante che affrontare ciò che prima ci faceva paura. Non c’è pace più autentica di quella che nasce da un passato riconciliato. Come scriveva C.S. Lewis: “Non puoi tornare indietro e cambiare l’inizio, ma puoi iniziare da dove sei e cambiare il finale.” La verità, anche quando sembra scomoda, è sempre un’opportunità di rinascita.

La resilienza del Friuli

Ed è qui che si rivela la grandezza dell’intuizione agostiniana: l’uomo non è vinto finché resta fedele a ciò che egli è davanti a Dio. E proprio qui, sorprendentemente, entra in gioco la storia concreta di un popolo e di una terra: il Friuli. Pochi luoghi incarnano con altrettanta dignità la verità contenuta nella sentenza agostiniana. Si pensi al trauma dell’invasione longobarda e alla devastazione di Aquileia nel VI secolo: poteva essere la fine ma comunità non fu vinta perché non disertò la propria identità. E così accadde nei secoli, nei conflitti medievali, nelle tensioni con Venezia, nei moti del Risorgimento, e ancora sotto l’urto violento della modernità. Ma nulla è eloquente quanto il terremoto del 1976. In poche ore, interi paesi vennero rasi al suolo. Si sarebbe potuto cedere allo scoramento, alla paralisi del lutto. Invece il popolo friulano scelse di non abbandonare se stesso: le fabbriche, le case, le chiese. Ma in verità, la prima pietra ricostruita fu invisibile: fu la coscienza di essere un popolo. Ciò che non si lascia morire, vive. E se in questi giorni abbiamo celebrato la festa della Patria del Friuli, non celebriamo una semplice commemorazione storica, ma la testimonianza di una fedeltà; alla propria lingua, alla propria memoria, alla propria vocazione spirituale e civile. Non è vinto chi non si lascia vincere, e il Friuli, pur ferito, ha saputo resistere senza perdere se stesso.

Nella scrittura, storia e letteratura

La Scrittura non tace su questo misterioso legame tra la fedeltà interiore e la forza nella prova. Pochi personaggi esprimono questa verità con la potenza di Giobbe. Derubato di tutto, colpito nel corpo, abbandonato persino dagli amici, non rinuncia però a essere se stesso davanti a Dio. “Anche se mi uccidesse, io spererei in lui” (Gb 13,15). Giobbe non è vinto perché non si svende. Non cerca una pace apparente, non pronuncia parole vuote solo per avere tregua. Rimane fedele alla verità, anche quando essa gli appare oscura. E alla fine, è Dio stesso che lo rivendica. Giobbe ci ricorda che la perseveranza non è ostinazione cieca, ma adesione profonda a ciò che si è nel cuore. Lo sapevano bene anche i padri del deserto, che nel silenzio delle grotte egiziane cercavano non la fuga dal mondo, ma l’essenza dell’uomo. E uno di loro, Evagrio Pontico, scriveva che il più grande nemico della vita spirituale non è il peccato, ma l’accidia, cioè quel torpore interiore che ci fa smettere di lottare, di cercare, di credere. L’accidia è il rifiuto di essere quello che si è chiamati a essere. È la resa silenziosa che precede ogni sconfitta. Ecco perché i monaci, pur vivendo in solitudine, combattevano ogni giorno una guerra vera: non contro uomini, ma contro la tentazione di disertare il proprio cuore. Tra le molte immagini che la letteratura ci ha lasciato della fedeltà silenziosa, è interessante considerare Dino Buzzati ne Il deserto dei Tartari. Il tenente Drogo attende per anni, ai confini di un regno che non attacca mai, l’arrivo di un nemico che forse non verrà. Intorno a lui, il tempo si disgrega, i compagni cambiano, il corpo invecchia. Eppure, alla fine, quando il destino si mostra — come un lampo tardivo — egli è ancora lì, al suo posto. Non per ingenuità, né per eroismo, ma per una forma di fedeltà a se stesso, alla propria vocazione, a quella “chiamata muta” che gli aveva indicato un confine da abitare. È un’immagine forte, quasi ascetica, di quella vigilanza interiore che spesso il nostro tempo deride, ma che forse è una delle poche realtà capaci di resistere al consumo dell’anima. E c’è qualcosa di profondamente cristiano in questa disponibilità a restare, anche quando nulla sembra accadere. Non è forse questa la fede: rimanere presenti, anche quando tutto intorno tace? Viviamo giorni in cui si confonde la verità con l’efficienza, la giustizia con la visibilità, la vocazione con il risultato. Ma ciò che veramente fonda la vita è altrove: è nella scelta costante di abitare ciò che si è, anche senza prove, anche senza garanzie. Ogni uomo e ogni donna che rimangono fedeli alla propria coscienza nel quotidiano — in famiglia, nel lavoro, nel lutto, nel perdono — testimoniano che non è vinto chi non si lascia vincere. La verità non si afferma a colpi di parole, ma con la coerenza di una presenza. Ecco perché, alla fine, Agostino ha ragione: non è vinto se non colui che diserta se stesso. Chi non fugge da ciò che è, alla lunga, costruisce.

Francesco Palazzolo

“DA CUORE A CUORE”

In cerca della città futura

La città terrena, non vivendo secondo la fede, ricerca la gloria degli uomini e si vanta delle proprie opere.” Sant’Agostino, La Città di Dio, Libro V, 14

Il Sacco di Roma del 410 d.C. rivela la vulnerabilità dell’Impero Romano, la città eterna si rivela caduca, l’ordine del mondo sembra perso. La civiltà si interroga su dove Dio sia in tutto questo. Alcuni pagani accusano il cristianesimo di aver indebolito l’Urbe, privandola dei suoi dèi protettori. Sant’Agostino, in tutta risposta, propone una nuova teologia della storia.

Al cuore del suo pensiero c’è la contrapposizione tra due città: la civitas terrena, fondata sull’amore di sé fino al disprezzo di Dio, e la civitas Dei, fondata sull’amore di Dio fino al disprezzo di sé. La città terrena è l’immagine della superbia, dell’uomo che confida nelle proprie forze e cerca la gloria mondana. È Caino che costruisce la prima città (Gen 4,17), è Babilonia che si innalza fino al cielo (Gen 11,4), è Roma che si inorgoglisce della propria grandezza e non riconosce la provvidenza divina.

Agostino non nega che il mondo abbia un valore: in esso vivono i giusti e i peccatori, i santi e i malvagi. Ma la città terrena rimane precaria e temporanea, proprio perché soggetta allo scorrere del tempo. Il suo intento non è demonizzare la storia, ma mostrare ai cristiani che la loro vera patria non è qui. Scrive per i suoi diocesani, affinché non si scoraggino di fronte ai rovesci del mondo, ma comprendano che “non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura” (Eb 13,14).

Questa prospettiva conduce a una presenza consapevole: il cristiano vive nel mondo senza appartenervi. Qui si innesta il grande tema del rapporto tra il credente e il mondo, e tra la Chiesa e la società. Se Agostino getta le basi di questa riflessione, altri santi, in epoche diverse, ne hanno incarnato le implicazioni.

San Francesco di Sales e il cristiano nel mondo

Tra questi, San Francesco di Sales si distingue per il suo approccio positivo e fiducioso. Vescovo nella Chiesa del Seicento, epoca di guerre religiose e divisioni, egli non si rifugia in una visione polemica o difensiva, ma indica una via di santità per tutti, anche per chi vive nel mondo. Il suo Filotea è un vero e proprio trattato di spiritualità per i laici: “È un errore, anzi un’eresia, voler escludere l’esercizio della devozione dalla vita militare, dalla bottega degli artigiani, dalla corte dei principi, dalla vita coniugale” (Filotea, I, 3).

Comprende che la città terrena, con tutte le sue occupazioni e responsabilità, non è un ostacolo alla santità, ma il luogo in cui essa si realizza. Il cristiano è chiamato a trascendere il mondo dal suo interno, senza fughe.

  • un’idea che troverà piena espressione nel Concilio Vaticano II, quando si affermerà che i laici “sono chiamati da Dio perché, mossi dallo spirito cristiano, esercitino il loro apostolato nel mondo, a modo di  fermento” (Apostolicam Actuositatem, 2).

Un altro esempio significativo è San Giovanni Bosco, che vive nel secolo XIX, in piena rivoluzione industriale. Il suo impegno per i giovani operai, il suo dialogo con la società del tempo, la sua capacità di leggere i segni dei tempi e rispondere con creatività e coraggio ne fanno un modello di santità “nel mondo”. Non si oppone alla modernità, ma cerca di evangelizzarla dall’interno, anticipando il pensiero sociale della Chiesa.

Le encicliche: la Chiesa interpreta il mondo

I pontefici, lungo i secoli, hanno progressivamente affinato lo sguardo della Chiesa sul mondo, non come una realtà da combattere, ma da comprendere e redimere. Il primo documento della Chiesa che affronta in modo sistematico la questione sociale è la Rerum Novarum (1891) di Leone XIII, che difende la dignità dei lavoratori e afferma il principio della giustizia sociale. Con essa, la Chiesa entra con autorità nel dibattito sulle trasformazioni economiche e sociali della modernità. Da allora, le encicliche sociali hanno segnato la storia: Quadragesimo Anno (1931) di Pio XI affronta la crisi del capitalismo e propone il principio della sussidiarietà; Mater et Magistra (1961) di Giovanni XXIII amplia l’orizzonte alla cooperazione internazionale; Populorum Progressio (1967) di Paolo VI fa dell’opzione per i poveri un criterio di giudizio sulla politica e l’economia. Giovanni Paolo II, con Centesimus Annus (1991), riflette sulla caduta del comunismo e sulle sfide della globalizzazione. Benedetto XVI, con Caritas in Veritate (2009), evidenzia il nesso tra etica e sviluppo, mentre Papa Francesco, nella Laudato Si’ (2015), allarga la prospettiva alla cura della casa comune, mostrando che la questione ecologica è inseparabile da quella sociale.

In tutto questo emerge un filo conduttore: la Chiesa si fa interprete dei bisogni più profondi del mondo e, come si è visto, con notevole lungimiranza.

Conclusione

La città terrena, con le sue contraddizioni e le sue promesse, resta il luogo in cui il cristiano è chiamato a vivere. Agostino ci insegna che non possiamo riporre la nostra fiducia nelle strutture umane, perché “passa la scena di questo mondo” (1 Cor 7,31). Ma ci insegna anche che, finché siamo qui, il nostro compito è vivere in un certo modo.

San Francesco di Sales e San Giovanni Bosco ci mostrano che non si tratta di fuggire dal mondo, ma di abitarlo con fede. E il magistero della Chiesa continua a discernere i segni dei tempi, offrendo una bussola per orientarsi in un mondo che cambia.

Il cristiano vive nel mondo senza appartenere al mondo (Gv 17,16). È cittadino della terra, ma con lo sguardo rivolto al cielo. Ed è proprio questa tensione, questa duplice appartenenza, a rendere la sua presenza feconda.

Francesco Palazzolo

“DA CUORE A CUORE”

Città di Dio e città degli uomini

La città di Dio vive nella pace eterna, perché in essa non c’è disordine, ma un’ordinata obbedienza alla volontà divina.

(Agostino, De Civitate Dei XIX, 11)

La riflessione di Agostino sulla civitas Dei e la civitas terrena non si limita a una distinzione tra realtà spirituali, ma è lettura della storia e della condizione umana, distinta tra l’amore per se stessi e l’amore per Dio. “Due amori hanno fatto due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio ha edificato la città terrena; l’amore di Dio fino al disprezzo di sé ha edificato la città celeste” (De Civitate Dei, XIV, 28). Questa affermazione è fondamentale per comprendere la visione agostiniana, poiché la città di Dio non è un concetto astratto ma si radica nella vita concreta di ogni uomo. La civitas Dei, pur non essendo un’entità fisica, è una realtà spirituale e morale che si concretizza nel comportamento e nelle scelte di vita dei suoi membri. Proviamo a fare delle considerazioni su quest’opera colossale.

La Città di Dio. Dettagli storici e teologici

Il contesto storico (La Città di Dio fu scritta tra il 413 e il 426 d.C.) è un periodo critico per l’Impero Romano. La violazione di Roma da parte dei Visigoti nel 410 d.C. rappresentò un trauma profondo per l’Occidente, un evento che segnò il declino di un impero che era stato, per secoli, simbolo di ordine e di potenza. In questo contesto, Agostino, vescovo di Ippona (attuale Annaba, in Algeria), scrisse l’opera per rispondere alle critiche mosse dai pagani contro il cristianesimo, accusato di essere la causa prima del declino e poi del crollo dell’Impero Romano. Agostino difende la fede cristiana, affermando che la vera civitas non è quella terrena, destinata a decadere, ma quella celeste, che trova la sua fondazione “nell’amore di Dio e nella grazia”. La struttura dell’opera si articola su due livelli: uno storiografico e uno teologico. Nel primo, Agostino esamina gli eventi storici alla luce della volontà divina, sostenendo che la caduta di Roma non è un castigo del Dio cristiano, ma il risultato di una vita mondana, priva di vera giustizia e di vera pace. È il risultato di un modo di vivere dominato dall’egoismo, dove gli uomini si allontanano dalla legge divina per perseguire i propri desideri terreni. Nel secondo livello, Agostino espone una visione escatologica: la civitas Dei è una realtà spirituale che affonda le radici nel cuore di ogni cristiano, ma che troverà il suo compimento definitivo solo al termine della storia, quando Dio giudicherà il mondo e dividerà definitivamente i giusti dai peccatori. Questa città celeste è comunità fondata sulla carità e sull’obbedienza alla volontà di Dio, da essa nasce la vera giustizia e la pace eterna. In effetti, Agostino non sta solo facendo una riflessione filosofica o teologica, ma risponde anche a una serie di domande urgenti poste dalla sua contemporaneità. Cosa significa che Roma è caduta? E cosa ci insegna questo fatto rispetto alla vera natura della civiltà umana? A queste domande Agostino risponde, dicendo che le vere civiltà non sono fatte da regni terreni o dall’ordine sociale imposto dalla forza, ma da un ordine che trova la sua radice nell’amore per Dio, che supera ogni confine temporale e materiale. Non solo: è anche l’unico vero ordine possibile, l’unica struttura che possa definirsi tale, l’unico sistema ordinato a priori che non dipende dalle condizioni materiali o politiche del mondo. Questo ordine è quello che consente la vera libertà: non quella di fare ciò che si vuole, ma quella di vivere secondo il piano divino, che è il piano del bene assoluto.

Questo ordine teologico si riflette anche nelle istituzioni della Chiesa, che per Agostino rappresentano l’anticipo della civitas Dei. La Chiesa, infatti, è la comunità di fedeli che, attraverso la partecipazione ai sacramenti e l’osservanza della legge divina, si prepara alla cittadinanza nella civitas Dei, un regno che, per quella stessa sua dimensione escatologica, si realizzerà pienamente solo nel regno dei cieli.

La complessità e la fisica moderna

Credo valga la pena soffermarsi sul tema dell’ordine, perché vi si trova una sorprendente sintonia con le intuizioni moderne della teoria della complessità, in particolare con la tesi di Giorgio Parisi, che gli valse il Nobel pochi anni fa. Se consideriamo la visione agostiniana della civitas Dei, possiamo paragonarla a un sistema complesso in cui, pur essendo composta da elementi individuali, emerge un ordine superiore che trascende le singole parti. Questo ordine, per Agostino, si realizza progressivamente, man mano che l’individuo, attraverso la grazia divina, ascende verso Dio. Il concetto di civitas Dei si fonda su una verticalità dell’ordine, dove più si sale verso Dio, più si scopre un ordine perfetto e completo, in grado di superare il caos e il disordine della civitas terrena. Parisi, nel descrivere i sistemi complessi, ci mostra come oggetti che sembrano semplici, come le molecole, attraverso la loro interazione possano generare comportamenti collettivi che sono molto diversi da quelli che ciascun agente avrebbe individualmente. Un esempio tipico è quello delle molecole d’acqua: pur seguendo leggi fisiche semplici, esse danno vita a fenomeni collettivi come l’evaporazione e la solidificazione, nei quali il comportamento globale non può essere spiegato solo attraverso l’azione delle singole molecole, ma emerge solo quando queste si trovano a interagire in un contesto più ampio. Questo fenomeno, descritto da Parisi come un “cambio di fase” nei sistemi complessi, è il cuore della tesi agostiniana sull’ordine. Questo cambio di fase collettivo lo notiamo anche in società; quando poche persone si trovano nella metropolitana, per esempio, i flussi di passeggeri che vanno in direzioni opposte sono casuali, senza un’organizzazione evidente. Tuttavia, man mano che il numero di persone aumenta, accade che la gente in transito cominci ad organizzarsi in due flussi distinti: una parte si orienta lungo un lato del corridoio, mentre l’altra si dispone nell’opposto. Questo ordine emergente non è il risultato di un piano prestabilito, ma nasce spontaneamente dall’interazione tra le persone, che, nel loro movimento, tendono a seguire un comportamento collettivo che riduce il caos e crea una maggiore organizzazione e sincronizzazione. La civitas Dei agostiniana è, in un certo senso, un “sistema complesso” in cui gli individui, pur essendo liberi e autonomi, contribuiscono a un ordine divino che emerge solo quando l’umanità intera si unisce nella grazia di Dio. In questo senso, Agostino anticipa, in termini spirituali e teologici, la visione che Parisi propone per la scienza moderna: che l’ordine, pur essendo presente in ogni singolo agente, si manifesta in modo pieno e perfetto solo quando questi agenti sono parte di un sistema che trascende la somma delle singole parti.

Francesco Palazzolo